PHOTO
Nanni Moretti
Termina il nostro viaggio nelle monosale italiane. Concludiamo a Roma, a Trastevere, nel Cinema Nuovo Sacher, da decenni punto di riferimento per la capitale e non solo. A gestirlo è la Sacher Film, capitanata da un maestro del cinema come Nanni Moretti.
Qual è la storia del Nuovo Sacher?
Credo che fosse in attività già dagli anni Trenta, era anche un teatro. In alto, all’entrata, si legge ancora Cinema Teatro Nuovo. Oggi è il Nuovo Sacher perché la proprietà, i Monopoli di Stato, ci dissero che potevamo aggiungere un nome, non sostituirlo completamente. La parola “nuovo” doveva rimanere. Per quanto mi riguarda, tutto è iniziato trentadue anni fa. Allora, con Angelo Barbagallo, avevamo anche cercato altre sale. Il Rialto, ad esempio, un cinema chiuso da tempo. Però alla fine non ci riuscimmo. Il Nuovo era una sala di seconda visione. Abbiamo iniziato a lavorarci, e l’apertura è stata il 1° novembre del 1991, con Riff Raff di Ken Loach. La mia vita da spettatore ha sempre influenzato il mio lavoro di regista. In quel periodo paradossalmente i cinema non erano luoghi accoglienti, ma respingenti nei confronti del pubblico. Non erano per il pubblico, erano contro il pubblico (oggi per fortuna è in parte diverso). Volevo creare un luogo caldo, con film che a me sarebbe piaciuto vedere come spettatore.
Quali sono stati i titoli più importanti?
Naturalmente quando esce un mio film al Nuovo Sacher va molto bene. C’è sempre una grande affluenza, che supera quella delle altre sale. L’esperienza più felice però è stata Heimat 2 – Cronaca di una giovinezza di Edgar Reitz, in tedesco Die zweite Heimat, che significa “La seconda patria”. Nessuno al mondo lo aveva proiettato in quel modo. In Germania c’erano state alcune proiezioni evento nei week end in teatri d’opera, dove proiettavano in un fine settimana tutti e tredici gli episodi. Noi invece ne programmavamo uno a settimana: è stato fantastico. Alcuni spettatori si davano appuntamento il primo giorno perché volevano vedere subito il nuovo episodio e non riuscivano ad aspettare. Altri il sabato sera, la domenica pomeriggio o il mercoledì con il prezzo ridotto. Era un punto di incontro per appassionati, è stato qualcosa di unico. Poi, per esempio, il film russo Sta’ fermo, muori e resuscita di Vitalij Kanevskij. Non fu un successo, ma rimase nella memoria degli spettatori: alcuni film sono importanti perché formano l’identità di una sala. Tra gli italiani ricordo Il ladro di bambini di Amelio, L’amore molesto di Martone, I cento passi di Giordana, fino ad arrivare a Io capitano di Garrone. È stata una bellissima serata quando Agnès Varda è venuta a presentare Visages, villages.
Com’è cambiato il Nuovo Sacher in questi trent’anni?
Il pubblico è invecchiato, purtroppo non c’è un grande ricambio generazionale. Certo, funzionano le anteprime, le proiezioni con dibattito, i “Rendez-Vous del cinema francese” in primavera, la mia rassegna estiva di esordi “Bimbi Belli” che faccio nell’arena. Per “Bimbi Belli” ci si aspetterebbe un pubblico giovane, specialmente in una città come Roma, dove ci sono migliaia e migliaia di aspiranti registi, sceneggiatrici, produttrici, direttori della fotografia, attori e attrici... Ma purtroppo non è così. Volendo generalizzare e quindi un po’ sbagliando, si può dire che il pubblico giovane va a vedere un altro genere di film in un altro tipo di sala cinematografica. E comunque oggi per i ragazzi i film visti al cinema non sono centrali nella loro vita come lo erano cinquant’anni fa per me e i mei coetanei.
La chiave del successo della sua sala?
Avere un’identità forte, rivolgersi a quel pezzetto di pubblico che si fida dei film che scelgo. Faccio scelte che mi sembrano di qualità senza pensare a quanto potranno incassare i film. Anche se, purtroppo o per fortuna, ma io direi per fortuna, non si può mai conoscere in anticipo il successo o l’insuccesso di un film.
Come sta andando il 2023?
Il sol dell’avvenire l’ho programmato dal 20 aprile per dieci settimane ed è andato molto bene. D’estate l’arena si è difesa. Da settembre c’è stato il film di Garrone, con un ottimo risultato. E ora sta andando bene Anatomia di una caduta, che sto proiettando solo in originale. Però, ripeto: se gli “eventi” vanno bene, con l’ordinaria amministrazione invece si fatica.
Nell’arena lei ha girato anche una scena di La messa è finita.
È vero, ma era il 1985. Non sapevo ancora che poi quel posto sarebbe diventato il mio cinema. È stato un caso. O una premonizione…
Lei è fiducioso per il futuro delle sale?
Faccio finta di niente. Osservo quello che succede, noto letteralmente a mie spese quanto si è ridotto il pubblico negli ultimi decenni. Però nella mia vita, nei momenti di crisi, ho sempre avuto l’abitudine di rilanciare. Nella seconda metà degli anni Ottanta il cinema italiano languiva, erano di moda i film “internazionali”, con attori stranieri, con sceneggiature che facevano il giro del mondo e che, per piacere a tutti, alla fine non accontentavano nessuno: film ibridi, né carne né pesce, non italiani e non internazionali. Così ho fondato una società che avrebbe prodotto film italiani profondamente radicati: la Sacher Film. Quando qualche anno dopo le sale chiudevano, io ho aperto un cinema. L’avvocato che ci seguiva ci disse: “Ma come tutti vedono i film in videocassetta e voi aprite un cinema?”. Anni dopo, quando mi è sembrato che ci fosse scarsa attenzione verso gli esordienti, ho inventato “Bimbi Belli”, la rassegna dedicata ai primi film. Forse la risposta giusta a questa domanda dovrebbe essere: sono fiducioso, ma non stupido, i numeri li so leggere. Ma il cinema non è in crisi per me come spettatore, e quindi nemmeno come regista. Quando scrivo e giro un film, penso ai cinema, penso a degli spettatori sconosciuti che si ritrovano in una sala buia per guardare sullo schermo immagini molto più grandi di loro.
Come vive il suo essere esercente, produttore e regista?
Non è un dovere, ma un piacere. Non mi sento investito da una missione in favore del cinema di qualità. I miei diversi lavori completano il mio essere regista.