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Enrico Vanzina
Sarebbe banale dire che per Enrico Vanzina il cinema è un affare di famiglia, ma è difficile trovare espressioni più calzanti. Perché il cinema l’ha respirato sin da piccolo, sui set del papà Steno, da giovane firma del Marc’Aurelio (il principale giornale satirico uscito nel Ventennio fascista: in redazione bazzicano Marcello Marchesi, Vittorio Metz, Cesare Zavattini, Agenore Incrocci, Furio Scarpelli, Federico Fellini) e poi tra le punte di diamante di una generazione che, alla fine della guerra, ha (re)inventato il cinema comico italiano e posto le basi per la commedia all’italiana.
Dopo gli studi appropriati a un ragazzo della buona borghesia (Baccalaureat allo Chateaubriand di Roma, laurea in Scienze politiche alla Sapienza), ecco l’appuntamento col cinema, da predestinato, accanto al papà. E poi in ditta insieme a Carlo, il fratello con cui ha costituito un sodalizio che è diventato un brand, un modo di dire, un’idea di cinema popolare, una pietra di paragone anche in negativo.
Non era ovvio che l’Accademia del Cinema Italiano assegnasse un David di Donatello speciale a Enrico Vanzina, che sarà consegnato nel corso della cerimonia di premiazione in programma mercoledì 10 maggio. Perché, per molti, Vanzina è ancora un cognome urticante, ma nella parabola di Vanzina – anche se sarebbe più giusto dire dei Vanzina – possiamo leggere la storia del pubblico italiano, la sua progressiva disaffezione alla sala, la scelta della televisione come mezzo privilegiato per la fruizione di film del passato, del presente come del futuro.
E possiamo leggervi anche il graduale scollamento da un sogno effimero, coincidente con la stagione d’oro del babbo Steno: quella di un cinema come specchio della società, che intercetta tendenze, ossessioni, manie, non-detti di un popolo, dentro un meccanismo narrativo volto a svelarne ipocrisie e turbamenti.
D’altronde per loro vale un discorso analogo a quello che si può fare per Nanni Moretti o Carlo Verdone o Castellano & Pipolo: è impossibile capire almeno i decenni degli Ottanta e dei Novanta facendo a meno dell’opera dei fratelli. I film dei Vanzina rivelano limiti e confini di un’epoca post-ideologica e perfino post-cinematografica: dove finisce l’efficacia sociologica non sempre inizia un’incisività antropologica, eppure si muovono consapevolmente sotto una costellazione di riferimenti introiettati da risultare trasparenti (la commedia dei padri, la screwball sempre lambita, i generi). Lo fanno per restare ancorati al passato che amano e al contempo potersi armonizzare con la necessità di raccontare il presente, le sue mode, i suoi tic, le sue hit, le allusioni alla cronaca.
Salvati dai militanti dello stracult, osteggiati da battaglie culturali di retroguardia, oggi rispettati con affetto (c’entrano anche i contraccolpi emotivi per la prematura scomparsa di Carlo nel 2018? Sì), i Vanzina fanno parte del nostro immaginario perché hanno contribuito ad alimentarlo, se non proprio a costruirlo.
Enrico, del duo, è stato l’intellettuale, “un cinefilo liberal, colto e fulmineo – come si legge nella motivazione vergata da Piera Detassis, presidente dell’Accademia e direttrice artistica dei David – nel trafiggere i vizi e le manie del costume italiano”. Ma anche il più affezionato alla prospettiva di rinsaldare il legame con la tradizione, anche letteraria, con lo spirito di Ennio Flaiano, evocato nel titolo di uno dei suoi ultimi libri, Diario diurno, come ha raccontato in un incontro con Cinematografo: “Andavamo sempre a casa della più grande sceneggiatrice italiana, Suso Cecchi D’Amico, tutto il cinema italiano si radunava da lei per delle cene in piedi. Una sera confessai ad Age, che con Scarpelli formava la più importante coppia di autori del nostro cinema, di voler fare lo scrittore. Allora lui mi portò da Flaiano che mi guardò e fece alcune battute tipiche del suo carattere: ‘Sono il grande Flaiano, fammi qualche domanda’, mi disse. Io, tutto rosso, gli chiesi: ‘Ennio, a cosa serve scrivere?’. Lui passò al suo lato malinconico e rispose: ‘Serve a sconfiggere la morte’. È così. Io ci penso da allora”.
Dell’Italia, Vanzina è stato un barometro, un osservatore, perfino un biografo, capace di raccontare un mondo trascendendo le epoche (Febbre da cavallo, del tutto organico al suo tempo perduto e però capace di dialogare col presente), anticipando l’agenda (La patata bollente, progressista senza saperlo: “prima o poi anche il partito dovrà occuparsi di quel problema lì”), stando dentro le cose guardandole da fuori (Ti presento un’amica, manifesto nascosto della stagione di Craxi). “Siamo rimasti il paese degli impicci, come ai tempi di Totò, ma siamo rassegnati. Viviamo un presente continuo. La vita ha senso se la annoti, bisogna vivere pensando che il presente può diventare un ricordo. Solo così possiamo immaginare futuro”.
Un David che premia un autore squisitamente popolare, più serio e malinconico di quanto emerga dalla superficie dei suoi film e come si capisce bene nei suoi esiti migliori, in tandem con Carlo: Il pranzo della domenica (i riti anacronistici e le ipocrisie diffuse di un ceto alla prova dell’Italia berlusconiana), Il cielo in una stanza (la nostalgia come vizio supremo del borghese romano), Le finte bionde (il cinico bestiario cinico di un insider), Yuppies – I giovani di successo (esistono film più precisi nel raccontare la sbornia edonista di un decennio?), Via Montenapoleone (sotto il glamour, la disperazione) e soprattutto i due capolavori, Vacanze di Natale (un atlante, una mappa, un’enciclopedia) e Sapore di mare (che ha uno dei finali più belli e struggenti della storia del cinema italiano: perché improvvisamente l’estate svanisce e gli amori dell’estate non reggono all’autunno).