PHOTO
È ingeneroso ridurre Ennio Flaiano (morto a Roma il 20 novembre di cinquant’anni fa) alla collaborazione con Federico Fellini, un legame florido e tormentato che rischia di cannibalizzare la statura cinematografica di uno dei nostri intellettuali più irregolari e sorprendenti.
Ed è anche miope, perché pochi come Flaiano hanno toccato i generi più disparati e affrontato le storie meno convenzionali, offrendo uno sguardo in grado di osservare con distacco e sarcasmo le evoluzioni e le degradazioni del costume, penetrare nelle contraddizioni e nelle assurdità del carattere nazionale, riporre fiducia nel potenziale creativo di quella fantasia capace di rendere accettabile una realtà scadente.
A volte il dato biografico è fuorviante, ci può indurre a interpretazioni frettolose, però niente ci vieta di ipotizzare l’incidenza sul suo lavoro di alcuni eventi della giovinezza: una bocciatura a scuola, l’esaurimento nervoso, la morte della madre che gli fa diradare la presenza a Pescara (che gli ha dato i natali il 5 marzo 1910), la malattia della figlia Lelé. La stessa interruzione del rapporto con Fellini ha a che fare con il privato.
Ma se è vero, com’è vero, che di un autore resta l’opera, del Flaiano uomo di cinema sarebbe meglio tuffarsi nella sua filmografia, nuotando tra le circa sessanta sceneggiature scritte nell’arco di quasi un trentennio. Perché, certo, i capolavori, I vitelloni in primis, che resta la migliore (auto)biografia della provincia italiana, e La dolce vita, d’accordo, ma non c’è solo Fellini.
Pensiamo a La freccia nel fianco, tra i mélo più segreti di Alberto Lattuada, che racconta l’amore impossibile di un dodicenne per una diciottenne. Non così ovvio per l’epoca, con pezzi che svelano la qualità di Flaiano (il momento in cui il ragazzo si dichiara dietro una maschera carnevalesca) e con una vicenda produttiva particolare: girato nel settembre 1943, è il primo film italiano realizzato dopo l’armistizio nella Roma appena liberata.
E proprio la Capitale, amata quanto odiata residenza coatta del nostro, pullulante di soldati americani e traffichini che vivono di espedienti, è lo scenario di Roma città libera (in origine La notte porta consiglio, poi relegato a sottotitolo sull’onda della rivoluzione di Roberto Rossellini), capolavoro maledetto diretto da Marcello Pagliero che potrebbe chiamarsi anche Mentre Roma dorme, parafrasando il coevo film parigino postbellico di Marcel Carné. E dove al posto di Jacques Prevert, che assegnava ad un clochard la funzione di incarnare il Destino, c’è Flaiano, che delega la funzione a un ladro in giacca e cravatta. È qui, in questo gioco teorico e lunare, che si esalta il viaggiatore (da fermo) notturno, che concatena i fatti di personaggi senza nomi né orizzonti, avvolti da quel buio che sembra l’unico luogo in cui poter convivere con l’ineluttabilità del fallimento.
La notte, infatti, sembra essere lo spazio perfetto per Flaiano: se ne accorgono Michelangelo Antonioni, che lo vuole accanto proprio per il secondo opus della trilogia dell’incomunicabilità, La notte appunto, e Antonio Pietrangeli, che dà forma alle fantasie spettrali dello scrittore in Fantasmi a Roma. Ma anche Dino Risi, per cui scrive, insieme ad altri, Il segno di Venere, una delle commedie più belle del nostro cinema e che proprio nei suoi passaggi notturni rivela il fascino di una buffa bohémien un po’ cialtrona, e soprattutto uno dei più affascinanti e sommersi film del regista, Un amore a Roma, adattamento del romanzo di Ercole Patti.
È un’appendice crepuscolare della Dolce vita, in cui la capitale si trasfigura sotto la luna, diventando un testo aperto per esplorarla in modo inedito, ridisegnando la carta e riplasmando l’anima della città seguendo la bussola del cuore, senza logica né volontarietà (frase da ricordare: “Come si fa con le cose che si desiderano molto e si prova un sottile piacere a prolungarne l’attesa”). Un po’ come accade con La decima vittima di Elio Petri, scritto con il regista e Tonino Guerra, in cui la Roma razionalista diventa territorio distopico e futuribile, quasi il trip di un provinciale geniale che non si accontenta della bidimensionalità realista. E uno che riesce a intercettare umori e desideri di Antonioni, Risi, Pietrangeli e Petri, ecco, è un animale raro.
L’opera di Flaiano regala tanti altri percorsi, dalle felici collaborazioni con Alessandro Blasetti (sia passa dal leggiadro Peccato che sia una canaglia al metatestuale Io… io… io… e gli altri) ai lavori non accreditati (Vacanze romane, altra ricognizione della mappa capitolina sotto la cartolina turistica, e la moderna struttura episodica di Signore & signori). E piace sottolineare che, al di là del cinema più “ufficiale”, Flaiano lo si ritrova anche in cose decentrate, sfuggenti, irrisolte, anarchiche, successive alla rottura con Fellini, come se quella separazione avesse innescato una nuova bulimia. Come i due episodi di L’amore attraverso i secoli dedicati alla prostituzione durante l’età preistorica e l’Impero Romano. O Colpo rovente, una bizzarria psichedelica. Oppure Vivi o preferibilmente morti, spaghetti western che ha addirittura prodotto.
O come la trasposizione di Tonio Kröger di Thomas Mann, forse uno dei racconti più utili per comprendere lo spirito di Flaiano: c’è dentro il ruggito scettico dell’animale che si portava dentro, il contrasto emotivo di un emotivo travestito da satiro solitario, il diversivo artistico per evadere dalla vita borghese, la lancinante malinconia di chi non perdona al mondo di essergli diventato odioso.