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Pietro Castellitto e Giorgio Quarzo Guarascio in Enea © Vision Distribution
“Popolo felice, celebrato per favolosi miracoli… Stanchi della vita, si uccidono gettandosi in mare da una rupe: lietissimo è questo genere di sepoltura”: se Plinio il Vecchio benediva Gli iperborei, il romanzo che Pietro Castellitto ha scritto dopo il suo esordio da regista, I predatori, Enea dichiara esplicitamente il legame con Virgilio, rincorrendo il mito dentro il nome, per sentirsi vivo in un’epoca morta e decadente.
A cercar la bella morte, insomma, perché tutto torna e tutto si tiene. Più degli illustri genitori (Sergio e Margaret Mazzantini, per i distratti, il David di Donatello scagliato nei Predatori e il Premio Strega qui spesso aleggiante: Pietro principe ereditario dell’impero del midcult) a definire ambizioni e orizzonti di un golden boy in piena seconda fase arbasiniana (quella che segue la “bella promessa”, per intenderci) è il nonno Carlo Mazzantini, che sessantenne si rivelò memorialista, disseppellendo il passato più ignominioso, cioè quello di Salò: adolescente repubblichino, cresciuto con il mito della guerra futurista, si scoprì abbandonato e in lotta con un nemico invisibile, e così il rancore svanì nella nostalgia, il rimpianto personale nel revanscismo di chi in una storia personale lesse l’angoscia collettiva.
Che c’entra con Enea? C’entra perché, sì, la bella morte è un mito che persiste, ma la mistica del martirio si scialacqua nel suo residuo e il volo a planare di un aereo configura la tanatofilia di una generazione che per pigrizia paternalista si vorrebbe sempre connessa ed è invece così malinconicamente scollegata dalla felicità. Così accade in questa Roma nord che sembra il Vietnam (l’ormai nota iperbole, al di là del sarcasmo nei confronti del rampollo privilegiato, riluce nel pessimismo), dove si continua a ballare Bandiera gialla, una cover di mezzo secolo fa che è un po’ l’inno di chi preferiva il Piper al Sessantotto. Il passato non è una terra straniera: è tutto ciò che ci resta. Il presente è quello che è, il futuro è passato e non ce ne siamo nemmeno accorti: “Nonna, perché il futuro fa più paura della morte?” ci si chiedeva, invano, nei Predatori.
Orgiastico nel nichilismo, caotico per metodo, il classico come fuga. “Cantami, o Diva, dell’ira funesta e gestisci la rabbia/ Il deserto ce l’hai in testa perché siamo in Alaska/ È come darci un bacio, senza la faccia/ È come un attentato a Piazza di Spagna”: sono parole da Qualcuno che si esplode di Tutti Fenomeni, al secolo Giorgio Quarzo Guarascio, che qui è Valentino l’aviatore appena battezzato al cielo, l’amico e il sodale. Canzone che, come Gli iperborei, è costola del film, al pari dei suoi due album chez Niccolò Contessa, già I Cani, uno che nel 2011 aveva già previsto Enea (“I pariolini di diciott’anni comprano e vendono cocaina/ Fanno le aperte coi motorini/ Odiano tutte le guardie infami/ Animati da un generico quanto autentico fascismo/ Testimoniato ad esempio dagli adesivi sui caschi”).
Enea come epicentro generazionale: dieci anni dopo quel signore che dichiarava di non poter più perdere tempo a fare cose che non gli andava di fare, che voleva avere il potere di far fallire le feste, ecco uno che vecchio non lo sarà mai (“Per diventare vecchi ci vuole solo l’amore”: consiglio che è monito, commento che è sentenza), un giovin signore che per compassione nemmeno Trilussa dissacrerebbe. La grande bruttezza è un repertorio di immagini (le sigarette elettroniche, i sushi, le cacche dei gabbiani, la cocaina: da Ecce bombo a Ecce bamba), di luoghi (il circolo tennis sul Tevere, una veranda distrutta da una palma, il bagno di una villa dove immaginare l’inaudito dell’amore), di sentimenti (la depressione che “fa un sacco di vittime”, le bestemmie dette fuori campo a Sergio Castellitto già blasfemo ne L’ora di religione qui in clamoroso cortocircuito).
E quel che resta del romanzo criminale è materia romanzesca e perfino romantica, tant’è che la morte non risparmia nemmeno il reduce di una stagione ormai trasfigurata nel mito. L’unico a capire che il pezzo mancante – non è la droga sottratta: svuotiamo il lessico dei banditi e riconsegniamolo ai poeti – è l’amore: i baci non si vedono mai, oscurati per pudore, tagliati per spavento, rimossi per disperazione, impossibili da mettere in scena. A meno che non siano quelli dei genitori: difettosi ma vivi, capaci di preservarsi malgrado i segreti (o proprio grazie a questi), detentori di un passato che per i figli è una lezione inascoltata, un ingombro traumatico.
Come si fa “uccidere il padre”, come si può avere un reale conflitto con la generazione precedente, se ci portano in dote, ci scaraventano in faccia, l’unica idea d’amore possibile? Tanto vale volare insieme, l’attentato come atto poetico, una di quelle avventure che “non finiranno se per quegli amori esisteranno nuove spiagge”.
Enea è la rutilante trenodia di un giovane incapace di diventare grande, un affresco che si prende carico di una parte (la borghesia che tutto ha e nulla pretende se non l’impossibile ovvero l’annichilimento) e scopre l’umore, il colore, l’euforia, il dolore di una generazione tutta. Imprigionata nella nostalgia di cose mai vissute, la paura di chiedere a se stessi meno di quanto ci chiedono gli altri (un’aspirazione che è ineluttabilmente presunzione), l’impotenza di fronte al destino che riluce come un’eclisse negli sguardi dei due sposi innalzati al cielo. “Non so più fare come se non fosse amore/ se per errore chiudo gli occhi e penso a te”: una sentenza.