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Margherita Rosa de Francisco Baquero, Maria del Rosario Barreto Escobar, Edoardo Pesce in El Paraìso - Foto Matteo Graia
“Questo è il mio film più personale, di cui ho scritto anche il soggetto. Ho potuto mostrare una mia fragilità che difficilmente mi capita di poter esplicitare sui set”.
A dirlo è Edoardo Pesce protagonista del film El Paraíso, di Enrico Maria Artale, nelle vesti di un “mammone coatto”.
“Avevo avuto la visione di un mulo che portava le ceneri della madre sulla tomba di Elvis, ne scrissi un piccolo soggetto e Enrico lo ha sviluppato. È un personaggio diverso da quelli che di solito interpreto. È un coatto nel senso latino del termine cioè costretto in una situazione”, prosegue l’attore che non entra nei particolari della storia per non spoilerare.
Qualcosa però la possiamo dire. Julio Cesar (Edoardo Pesce) è un uomo di quarant’anni che vive ancora con sua madre (Margarita Rosa de Francisco), una donna colombiana e cocainomane dalla personalità molto trascinante. Un’esistenza ai margini vissuta con amore, tra narcotraffico e serate fatte di salsa e merengue, al tempo stesso simbiotica e opprimente, il cui equilibrio precario rischia di andare in crisi con l’arrivo della giovane Ines (Maria Del Rosario), reduce dal suo primo viaggio come “mula” della cocaina.
Vincitore per la miglior sceneggiatura alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti e dal 6 giugno in sala con I Wonder Pictures, il film girato a Isola Sacra a Fiumicino affronta dunque il complesso rapporto tra una madre e un figlio.
“Nel film il tema centrale è la relazione e la dipendenza tra una madre e un figlio, in quanto oppressione e simbiosi. C’è anche il tema della ricerca della propria origine. E l’origine se la deideologizziamo di tutto è la madre. Era un modo per andare al cuore della questione. C’è l’idea di andare in Colombia alla ricerca di questo luogo El Paraíso, che potrebbe anche essere immaginario”, dice il regista.
E poi: “Sono sempre stato attratto da ciò che è marginale per più motivi. Sono incuriosito da certe realtà anche psichiche. Ho sempre lavorato sulla contemporaneità. Per me deve esserci un incontro istintivo. Edoardo Pesce è una fucina di idee e suggestioni. Tante sue idee le ho trovate intelligenti. E questa ha toccato una mia corda molto personale. Un fuoco interiore. Qui racconto questo rapporto con la madre così complesso, profondo e conflittuale. Mi risuonava come quello che io ho avuto con mia madre in età adolescenziale. E in qualche modo volevo comprenderlo e esorcizzarlo. Julio è un misto di un mio e di un suo alter ego. In qualche modo io ed Edoardo lo condividiamo. È stato un gioco di specchi tra me e lui anche impegnativo perché siamo andati a fondo. Ho voluto fare una storia realistica dentro un immaginario che vive di nostalgia colombiana e musica degli anni settanta in una gran mescolanza per non ancorarmi all’attuale. Volevo un mondo un po’ immaginario e confondere un po’ le acque per essere poi un po’ più universali”.
E la madre di Edoardo com’è? “Molto equilibrata, elegante, distinta, più come Margarita nella vita che mentre giravamo stava laureandosi in filosofia e leggeva Kierkegaard”, risponde l’attore che in cantiere ha anche altri due soggetti: “Se qualcuno vuole produrmeli ben venga”, aggiunge scherzando. “Penso sempre a storie divise in tre atti e molto semplici. Ma non farei mai il regista perché bisogna essere molto preparati, con una grande esperienza sul set”.
Nel frattempo Enrico Maria Artale sta lavorando a una serie tratta da Il profeta di Jacques Audiard, suo nume tutelare, insieme a John Nicholas Cassavetes e Derek Cianfrance: “Tutti registi che hanno saputo mescolare il genere con le emozioni. È questo quello che mi piace”.