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Il ragazzo e l'airone
“E voi come vivrete?”. È il titolo originale dell’ultimo lavoro (Golden Globe e Oscar come miglior film d’animazione) di Hayao Miyazaki che per l’edizione italiana è il più tranquillizzante Il ragazzo e l’airone. La denominazione originale è omonima del romanzo del 1937 di Genzaburō Yoshino, (spunto più per lo spirito del film che per la trama, da cui si discosta nettamente). Fin dal titolo si intravede la precisione delle domande che il maestro giapponese intende porre: il senso dell’esistere, del male, della morte; la ricerca di ciò che è capace di dare vita, di rendere possibile la convivenza in modo autenticamente umano; sono alcune delle questioni che innervano questo progetto che ha rischiato di non esistere. Sì, perché a Venezia 70, nel 2013, durante l’anteprima di Si alza il vento, Miyazaki annunciò che quella sarebbe stata la sua ultima fatica. Ma tre anni dopo, il fondatore dello Studio Ghibli intraprese la scrittura di un nuovo lungometraggio che – complici le esigenze economiche e produttive e la pandemia – ha visto la luce solo nel 2023 (in Italia in sala dal 1° gennaio 2024).
Straordinario il valore del lavoro artistico, un monumentale sforzo artigianale di illustrazione realizzata a mano: “Da giovane riuscivo ad animare 10 minuti al mese, ora appena uno”, ha dichiarato il regista 83enne. Nell’era più che matura della grafica al computer e dell’intelligenza artificiale, c’è chi sa sfidare macchine e algoritmi imponendo l’insopprimibile ed originale valore del proprio tratto umano. Un film colto, ricco di citazioni artistiche (Fellini, De Chirico, Magritte), un romanzo di formazione, un viaggio al centro della vita e dell’uomo che sa smuovere gli spettatori, soprattutto i giovani, accorsi in gran numero in sala: campione di incassi in tutto il mondo (oltre 6 milioni di euro in Italia, quasi 200 milioni di dollari nel mondo), Il ragazzo e l’airone è il compimento artistico di Miyazaki e del suo Studio Ghibli.
La struttura del film è più complessa rispetto ai suoi titoli precedenti (anche la durata, 120 minuti, è insolita) e lascia ampi spazi di immaginazione e interpretazione, complice anche qualche “buco” di sceneggiatura. Tutto ciò non è a discapito della godibilità dell’opera, cui si può accedere secondo livelli di comprensione differenti. Già l’incipit che innesca l’articolata trama è un messaggio attuale. In un gigantesco incendio notturno causato dal bombardamento di Tokyo durante la Seconda Guerra Mondiale (rappresentato genialmente con il calore del fuoco che distorce i disegni animati), il protagonista, l’adolescente Mahito, perde l’amatissima madre ed è costretto a trasferirsi fuori città con il padre e la seconda moglie.
Gli eventi bellici causano morte e distruzione, ma soprattutto lacerano rapporti, procurano ferite e drammi che segnano indelebilmente anche la vita dei superstiti, senza che questi “danni”, che si dispiegano per decenni, entrino in qualsiasi tipo di contabilità e bilanci. Ad accompagnare Mahito nella crescita, anche la “nuova” mamma in attesa di un bimbo, che amorevolmente accoglie il ragazzo, aiutata da sette nonnine disegnate sul calco dei 7 nani di Biancaneve. E poi c’è lui, l’airone cenerino, angelo custode inizialmente bizzoso e respingente, poi preziosissima guida per il giovane protagonista spinto ad addentrarsi in un mondo oltre il terreno, denso di significati.
È evidente l’influenza dantesca sull’opera, sia nei fondamenti della trama che nella sua anima: a renderla manifesta una citazione della Divina commedia sulla porta della torre, ingresso del mondo fantastico protagonista di buona parte della storia. Uno dei molti pregi di Il ragazzo e l’airone sta nella volontà di Miyazaki di mostrare la sua visione spirituale della vita: la realtà è il luogo dove le persone “accadono” mediante le azioni della propria libertà in cui l’esistenza non può essere ridotta alla sola fattualità. C’è un’origine e un fine che il protagonista vuole indagare e conoscere: alla ricerca della madre evidentemente morta, con speranza certa confida non sia “finita” per sempre. Questa trascendenza non è mostrata come sovrastruttura rispetto all’esistenza terrena ma come verità dell’umano stesso.
Il regista non si fonda su una tradizione religiosa precisa, pur non essendo rari i riferimenti allo scintoismo insieme a citazioni evangeliche, come una “risurrezione” di Lazzaro. La sua è una fede nella vita, nella natura comunque buona dell’uomo e nella provvidenza che però hanno bisogno di un equilibrio, di quella delicatissima armonia originaria che va costantemente mantenuta a beneficio di tutti. Tutti nel film hanno bisogno di salvezza, non solo i “puri”, anche il personaggio più positivo della narrazione, il protagonista Mahito, il quale ha delle malizie che lo macchiano (l’episodio di bullismo inscenato per suscitare compassione). Da salvare sono inoltre la moltitudine di innocenti nascituri (warawara) minacciati da erodiani pellicani e tutta una serie variopinta di personaggi minori che popolano il racconto.
Come ci si salva? Intraprendendo il viaggio della vita e prendendo in mano la propria esistenza, a partire dalle proprie ferite, dal dolore che la morte infligge. Da qui il bisogno dell’eternità. Poi salvando gli altri, tutti: non come l’antagonista del finale della storia, il capo di fastidiosissimi parrocchetti, che la reclama esclusivamente per “i suoi”. Un film bello da vedere, ma che ha lo scomodo pregio di guardarci e di costringerci, dopo la sua visione, a domandarci: “E voi come vivrete?”.