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Harrison Ford in Indiana Jones e il Quadrante del Destino © 2022 Lucasfilm Ltd. & TM. All Rights Reserved
Spesso quando si pensa a Harrison Ford, tra i suoi tanti ruoli cult, si arriva subito a Indiana Jones. È un avventuriero, un professore, un cercatore di tesori munito di “divisa” ben riconoscibile, cappello e frusta.
In anteprima mondiale a Cannes e dal 28 giugno in sala il quinto capitolo, Indiana Jones e il quadrante del destino, distribuito dalla Disney. Per la prima volta dietro la macchina da presa non ci sarà Steven Spielberg, ma James Mangold. A restare un sempreverde è Harrison Ford, protagonista instancabile anche a ottant’anni e premio alla carriera a Cannes.
Ci saranno ancora i nazisti, l’azione, la magia della caccia, il brivido della sfida. Ma di coraggio Ford ne aveva già da vendere quando ha iniziato. La sua prima apparizione sul grande schermo è stata in Alle donne piace ladro, del 1966, di Bernard Girard. La “divisa” è quella del fattorino. Entra nella hall di un lussuoso albergo, corregge James Coburn, che qui interpreta un noto criminale, ed esce sorridendo. Nel profondo, cova già lo spirito gagliardo di Henry Walton Jones.
Perché si chiama Indiana? Per il suo cane, si sa. Quella di Ford per il suo personaggio non è stata solo fedeltà, ma soprattutto ossessione. In fondo è sempre stato Indiana Jones. Tralasciando i cameo, le piccole apparizioni, tra cui due sequenze in Zabriskie Point (la seconda è stata tagliata in fase di montaggio), il primo capolavoro a cui prende parte è American Graffiti di George Lucas. Qui è lo scavezzacollo Bob Falfa. Sul capo ha già il cappello da cowboy. Affianca al volante una macchina gialla, provoca il guidatore, fa rombare il motore al semaforo e, appena scatta il verde, gli fa mangiare la polvere lungo il rettilineo.
I predatori dell’arca perduta sarebbe arrivato decenni dopo, nel 1981. Prima Ford aveva già prestato il volto a un altro eroe molto carismatico: Ian Solo in Guerre stellari (1977) e in L’impero colpisce ancora (1980), diretti sempre da George Lucas. Ian Solo non è forse Indiana Jones? Gli manca solo il mitico cappello. Le sue continue schermaglie con la Principessa Leila ricordano quelle con Karen Allen, l’atteggiamento è da sbruffone, a tratti è aggressivo, fa il “contrabbandiere”, non si sottrae mai alla battaglia.
In più ha un’interessante (involontaria?) affinità con Indiana Jones. Quando vengono presentati al pubblico entrambi sembrano villain. Ian Solo in Guerre stellari è un poco di buono, deve molti soldi a un signore della guerra, e accetta di trasportare Luke Skywalker e Obi-Wan Kenobi, che non si fidano di lui, sulla sua Millenium Falcon. Nell’incipit di I predatori dell’arca perduta, Jones è un’ombra, che si staglia contro una montagna maledetta (quella della Paramount, che produce). La musica di John Williams è ambigua, non si addice a un paladino. Jones non viene mai ripreso nella sua interezza, esce dall’oscurità come se fosse una creatura maligna, facendo schioccare la frusta. Ian Solo è Indiana Jones o il contrario?
La verità è che Harrison Ford è sempre stato Indiana Jones, sia prima che dopo gli anni Ottanta. E a rendere magnetica la sua presenza è stata anche l’ambiguità, il fascino del bad guy dal cuore d’oro. Maturando, Indiana Jones è cambiato. Da una parte ha assunto una vena più hitchcockiana, ovvero l’uomo comune che deve difendersi, imprigionato da scambi di persona e situazioni al limite.
L’esempio più famoso è Il fuggitivo di Peter Weir. Il protagonista torna a casa, trova il cadavere della moglie, e viene accusato di essere l’assassino. Scatta una fuga rocambolesca, in cui l’inseguitore è Tommy Lee Jones. La struttura è simile a quella di Frantic di Roman Polanski, in cui Ford è sempre un medico importante. Vola a Parigi e la sua amata sparisce. L’altra connotazione che ha assunto Indiana Jones è quella del difensore della patria. Non cambia il modo di comportarsi, ma la casacca che veste. Ha dismesso il cappello, ma ha acquisito mostrine.
Per quanto riguarda Jack Ryan, il personaggio creato da Tom Clancy, in Giochi di potere e Sotto il segno del pericolo di Phillip Noyce, Ford è un agente segreto che deve sventare cospirazioni che potrebbero distruggere il mondo. Mission: Impossible? Quasi. Addirittura in Air Force One di Wolfgang Peterson è il presidente degli Stati Uniti stesso a respingere un attacco guidato dal terrorista Gary Oldman.
Indiana Jones è stato promosso, ed anche il difensore dei più deboli, come nel riuscito Witness – Il testimone di Peter Weir. Qui, candidato all’Oscar, è un detective che deve proteggere un bambino da un suo pericoloso collega. Sarebbe però riduttivo sostenere che Harrison Ford sia sempre stato Indiana Jones. In alcuni titoli ha svelato altre sfumature, una fragilità non consueta, anche se resta l’attaccamento al personaggio. Jones ha sempre avuto un’identità ben definita.
A mettere in crisi il modello è stato Blade Runner di Ridley Scott. I machi di cui Ford vestiva i panni hanno una caratterizzazione spesso granitica, che non lascia spazio a nuove interpretazioni. Invece nel cult del 1982 Rick Deckard non sa più chi è, dà la caccia a sé stesso. Essere un replicante significa sembrare un essere umano, ma in realtà si è solo degli androidi sintetici.
Si può fare una provocazione: tutti i ruoli di Ford sono in realtà dei “replicanti” di Indiana Jones, che è l’unico originale? Sarebbe riduttivo. In Mosquito Coast di Peter Weir è un folle che in segue un’utopia. Si trasforma in un padre padrone dallo sguardo allucinato, mette in pericolo la sua famiglia, è l’uomo da eliminare per ristabilire l’equilibrio.
Uno, nessuno e centomila Harrison Ford, ormai una leggenda consacrata anche dall’industria: all’ultima cerimonia degli Oscar ha consegnato la statuetta per il miglior film.