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Helmut Berger in Gruppo di famiglia in un interno (Webphoto)
È stato angelo e diavolo, l’uomo più bello del mondo e quello più decadente, il “favorito” del principe e l’attore maledetto: con Helmut Berger, scomparso oggi a pochi giorni dal settantanovesimo compleanno, se ne va il simbolo di un mondo perduto, di una stagione effimera, di un cinema al crepuscolo.
È morto a Salisburgo, nell’Austria che gli ha dato i Natali il 29 maggio del 1944, e da cui se ne va diciottenne, prima per stabilirsi a Londra, dove fa il modello sognando il grande schermo, e poi in Italia. Corsi di teatro a Perugia ma soprattutto Roma, che gli apre le porte del cinema. Nel 1964, la svolta, che ha il volto dell’allora quasi sessantenne Luchino Visconti, impegnato nelle riprese di Vaghe stelle dell’Orsa…: iniziano una relazione che, tra alti e bassi, dura fino alla morte del regista.
Che, nel 1969, lo consacra grazie a La caduta degli dei, inesorabile trenodia nella Germania nazista in cui Berger interpreta il rampollo dedito al travestitismo (folgorante nei panni di Marlene Dietrich), nevrotico e autodistruttivo con tendenze pedofile: un personaggio titanico che l’attore (non al debutto ma al terzo credito: ricordiamo il controverso Sai cosa faceva Stalin alle donne? di Maurizio Liverani) rende leggendario, guadagnando una nomination al Golden Globe per il miglior emergente.
Un anno dopo, Berger dimostra grande versatilità grazie a Il giardino dei Finzi Contini, ultimo Oscar vinto da Vittorio De Sica, che vede l’attore nel ruolo del fratello di Micòl aka Dominique Sanda. Frequenta il genere, da Il dio chiamato Dorian di Massimo Dallamano ispirato a Oscar Wilde (1970) al giallo Una farfalla con le ali insanguinate di Duccio Tessari (1971), seduce Elizabeth Taylor in Mercoledì delle ceneri di Larry Peerce (1973) e Glena Jackson in Una romantica donna inglese di Joseph Losey (1975), è a suo agio nelle ricostruzioni storiche come La colonna infame di Nelo Risi (1973).
Ma oltre a Tinto Brass, che ne esalta la perversione e la vena sadica in Salon Kitty (1975), è Visconti a valorizzarlo al meglio: Berger trova il ruolo della vita come protagonista del maestoso biopic Ludwig (1973) e veste i panni di un amante mantenuto in Gruppo di famiglia in un interno (1974). Due personaggi che per l’attore sono piuttosto autoriflessivi in quelle che sono due vere e proprie cripto-autobiografie del regista.
Dopo la morte di Visconti nel 1976, Berger entra in una forte depressione e, un anno dopo, rischia di morire per un eccesso di stupefacenti. Il bellissimo efebo comincia a invecchiare, il declino fisico non gli permette di accettare i ruoli di un tempo, le produzioni diffidano della sua anima borderline. Berger è un criminale nella Germania pre-nazista in L’alba dei falsi dei di Tessari (1978), un tenente innamorato nel war movie Il grande attacco di Umberto Lenzi (1978), un tossicodipendente nel cult Eroina di Massimo Pirri (1980), il diavolo in Mia moglie è una strega di Castellano e Pipolo (1980).
Trova qualche spazio in televisione, malgrado l’avventura di Fantômas si riveli sfortunata (quattro episodi nel 1980 per la regia di Claude Chabrol e Juan Luis Buñuel) e la partecipazione in Dynasty sia poco più che simbolica (1984). Nonostante Francis Ford Coppola, da gran cinefilo, lo arruoli come banchiere svizzero in Il padrino – Parte III (1990), il cinema si dimentica di lui, offrendogli occasioni poco interessanti, a parte un Ludwig 1881 che gli svizzeri Donatello e Fosco Dubini portano al Festival di Locarno nel 1993 e che permette all’attore di riprendere il suo personaggio più importante con un surplus di follia, desiderio e solitudine.
Negli ultimi vent’anni, tra cinema indipendente e reality imbarazzanti, appare quasi come un’icona nei panni dell’anziano Saint Laurent firmato da Bertrand Bonello (2014) e nel ruolo di un leggendario seduttore e libero pensatore tedesco in Liberté di Albert Serra (2019).