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Donato Carrisi - Foto Loris Zambelli
"Ho cercato di spiegare cosa fosse un mostro al di là della sua mostruosità e ho voluto fare una rivoluzione di genere: innestare nel thriller il dramma”. Dopo La ragazza nella nebbia e L’uomo del labirinto, Donato Carrisi porta al cinema il suo romanzo: Io sono l’abisso (edito da Longanesi), dal 27 ottobre con Vision Distribution.
Un lago. Una ragazzina che ci si getta dentro. Un serial killer che decide di aiutarla. Una matta alla ricerca di questo mostro. Sono questi gli elementi che ci portano dentro l’abisso e che compongono questa storia misteriosa. Misteriosa però non è solo la trama, ma rimangono anche i nomi degli interpreti di questo thriller (anche se si possono benissimo vedere nel trailer e nella vecchia locandina e oggi erano seduti sul palco: quale il senso della loro partecipazione non si capisce) per via di una richiesta insolita fatta dallo stesso regista in conferenza stampa e frutto di una precisa scelta artistica. “Al fine di rendere quanto più possibile realistiche le vicende narrate, era necessario spersonalizzare completamente i protagonisti della storia - dice Carrisi-. Nel romanzo avevo scelto di togliere i nomi dei personaggi e questo ha creato un’altra strada per l’empatia, un anonimato che ha funzionato con il lettore e con il cinema abbiamo proseguito in questa direzione”.
Per cui rispettiamo il veto e le identità dell’“L’uomo che puliva”, de “La cacciatrice di mosche” e de “La ragazzina con il ciuffo viola” non le divulgheremo “per ottenere lo stesso effetto del film”. E anche se l’“effetto nervosismo” è dietro l’angolo (soprattutto da parte dei giornalisti in difesa del proprio diritto di cronaca). In realtà si spera in un “effetto sorpresa”: “Vogliamo fare andare in sala il pubblico senza che conosca il cast”, dice il regista. Speriamo davvero che questa tecnica di promozione per il primo film di genere prodotto da Palomar dia i suoi frutti (lo scetticismo resta visto che la gente già non va al cinema, figuriamoci senza conoscere il cast).
Sul suo serial killer comunque qualcosa Donato Carrisi rivela: “Lui è l’insieme di tutti i serial killer che ho studiato ai tempi di criminologia. Figure come Luigi Chiatti. Il così detto mostro di Foligno era affetto da un disturbo narcisistico della personalità, per cui lui si vantava dei suoi omicidi non lesinando dettagli, però poi non diceva mai nulla sulla sua infanzia. Quando ho saputo quel che aveva vissuto da bambino, ho provato compassione per il mostro. E mi sono detto: voglio lo stesso risultato, voglio che il pubblico provi compassione per il mostro. I serial killer in realtà non sono mostruosi, ma banali e per questo spesso non si fanno prendere anche per anni”.
Nel finale c’è una battuta significativa: “Il male ha un cerchio”.
"Non volevo che ci fossero personaggi innocenti. Il bianco e il nero non mi sono mai piaciuti. Mi piace il grigio. Volevo che lo spettatore si sentisse come un elastico e che da un lato provasse compassione per loro e dall’altro no. Il male tende a rigenerare sé stesso e solo con l’amore si può spezzare. Questo avviene in tutti i contesti. Un figlio di genitori violenti sarà a sua volta un violento. Siamo tutti responsabili delle gesta di un serial killer. La rivoluzione di questo thriller è che al centro di tutto non vi è un atto violento, ma un atto d’amore. È quello che salva il serial killer. E io vorrei che il pubblico si sporcasse le mani con questa storia”.
Infine conclude: “I personaggi qui prevalgono sul caso da risolvere. Senza questi tre attori non avrei potuto fare il film”. Un piccolo indizio su chi è l’interprete de “L’uomo che puliva” però Carrisi lo dice: “Fece un provino per L’uomo del labirinto, non lo presi, ma mi segnai il suo nome”.