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Benedetta Porcaroli in Amanda
Col senno di poi, il 2022 è stato quasi uno spartiacque nella storia dei David di Donatello. Per le candidature e, soprattutto, per le vittorie. Checché ne dicano gli scettici, i premi servono a riconoscere meriti e promuovere il cinema italiano, ma anche a fotografare la realtà, testimoniare il presente, pensare al futuro nella misura in cui l’albo d’oro si fa canone.
Nel 2022, infatti, i giurati hanno celebrato sia venerati maestri (Giuseppe Tornatore, Paolo Sorrentino, Silvio Orlando, Nicola Piovani) sia personalità emergenti che, al di là del talento, sono investiti del compito di allargare gli orizzonti, offrire un panorama più inclusivo, rinnovare uno star system.
Da una parte c’è Laura Samani, la regista esordiente dell’ottimo Piccolo corpo, che testimonia qualcosa a cui i recenti David stanno rivolgendo particolare attenzione: la maggiore presenza di donne dietro la macchina da presa (Samani, per dire, è la prima regista a vincere nella categoria dai tempi di Roberta Torre, miglior esordiente nel lontano 1998).
Con la sessantottesima edizione sono ben tre su cinque le neo-registe in corsa per la statuetta: Carolina Cavalli (Amanda), Jasmine Trinca (Marcel!) e Giulia Louise Steigerwalt (Settembre). Un record, considerando che dal 1981, anno in cui i David hanno istituito la categoria, si contano solo 27 donne (12 nell’ultimo decennio) su 187 registi debuttanti candidati.
Se negli esordi qualcosa si muove, il problema persiste per la miglior regia: dopo i due exploit del 2019 (Valeria Golino per Euforia e Alice Rohrwacher per Lazzaro felice) e del 2021 (Emma Dante per Le sorelle Macaluso e Susanna Nicchiarelli per Miss Marx), anche stavolta nessuna donna è candidata. Tema antico: tra il 1981 e il 2019, le registe candidate sono state solo tre, Francesca Archibugi (due volte), Wilma Labate e Cristina Comencini (ebbene sì, pioniere come Lina Wertmüller e Liliana Cavani sono state “risarcite” con tardivi David speciali).
Va meglio tra i documentari, il cui premio è intitolato non a caso a Cecilia Mangini: quest’anno corrono Sophie Chiarello (Il cerchio) e Valentina Bertani (La timidezza delle chiome), l’anno scorso c’erano Francesca Mazzoleni (Punta Sacra) e la compianta Valentina Pedicini (Faith). E tra i cinque corti nominati c’è anche Albertine where are you? di Maria Guidone.
Evidenziando queste presenze, i David stanno indicando una strada: i premi, d’altronde, servono anche a immaginare quel che verrà, scommettere sulle promesse, rinverdire un paesaggio. Hanno portato bene a Samani, che dopo il David ha vinto anche l’EFA per la miglior scoperta europea, riconoscimento che nel 2020 ottenne Carlo Sironi per Sole. Anno in cui il David per l’esordio andò a Phaim Bhuiyan per Bangla, il primo italiano di seconda generazione a vincere un David.
E se da una parte ci sono le autrici e gli autori di domani, dall’altra ci sono le facce, cioè gli interpreti. Nel palmarès del 2022 c’è Teresa Saponangelo, trent’anni di onorato servizio coronati dal primo David grazie alla memorabile mamma di È stata la mano di Dio. E a suo modo simbolo di attori e attrici di lunga esperienza finalmente consacrati dai principali premi italiani. Pensiamo a Fabrizio Ferracane, Vanessa Scalera o Donatella Finocchiaro, tutti candidati negli ultimi tempi dopo anni di gavetta. E Barbara Ronchi (Settembre) e il teatrante di razza Fausto Russo Alesi (Esterno notte) in gara quest’anno per la prima volta.
Ma tra i vincitori dell’anno scorso troviamo anche la più giovane di sempre, l’allora diciassettenne non professionista Swamy Rotolo per A Chiara e Eduardo Scarpetta, classe 1993, l’erede di una dinastia il cui capostipite (omonimo!) è rievocato nel film per cui è stato premiato, Qui rido io. Sono scelte di campo che vanno al di là dei meriti manifesti, che vogliono segnalare volti inediti e restituire narrazioni che vanno oltre il grande schermo.
Rotolo, tra l’altro, si è imposta in una cinquina quasi completamente composta da debuttanti: la ventenne Aurora Giovinazzo (Freaks Out), l’indie Rosa Palasciano (Giulia), Miriam Leone, l’unica attrice in ascesa con potenziale divistico (Diabolik).
I David degli ultimi anni sono davvero attenti ai giovani, con un’interessante tendenza a sostenere attori e attrici di nemmeno trent’anni, a volte emersi anche grazie alla serialità e ad altre esperienze mediatiche: Benedetta Porcaroli (classe 1998, ora già alla seconda nomination grazie ad Amanda), Filippo Scotti (1999, È stata la mano di Dio), Linda Caridi (1988, Ricordi?), Pietro Castellitto (1991, anche miglior esordiente per I predatori), Marianna Fontana (1997, nominata con la gemella Angela per Indivisibili e da sola per Capri-Revolution), Daphne Scoccia (Fiore).
Fino ai casi più emblematici: Matilda De Angelis (1995, candidata a ventuno anni per Veloce come il vento e nel 2021 miglior attrice non protagonista per L’incredibile storia dell’Isola delle Rose) e i più grandi Luca Marinelli (1984, sei candidature in dieci anni, un premio per Lo chiamavano Jeeg Robot) e Alessandro Borghi (1986, sette volte in gara in otto edizioni, un David per Sulla mia pelle), davvero tra i volti decisivi del cinema italiano degli anni Dieci.
In fondo rincuora che le nuove leve conquistino le statuette più importanti, quasi a dimostrare che non c’è bisogno di istituire premi competitivi, come fanno i César con le migliori promesse (che, comunque, in un sistema come quello hanno un loro senso). Naturalmente non sono operazioni improvvise e dietro c’è un grande lavoro di rinnovamento della platea elettorale, l’Accademia del Cinema Italiano. L’approccio sembra quello giusto, sinceramente teso a raccontare al meglio un anno di cinema. Senza derive paternalistiche né giovanilismi a priori. E, infatti, i David continuano a celebrare anche le sconfinate giovinezze dei mostri sacri, in primis Marco Bellocchio.