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Monica Vitti in Deserto rosso
In una serie di articoli pubblicati tra il 1940 e il 1947, Michelangelo Antonioni – allora giovane critico per il “Corriere Padano”, “Cinema” e “Film rivista”, nonché autore dei primi cortometraggi – sosteneva con convinzione che il problema del colore fosse quello in assoluto più urgente, perché destinato a ridare al cinema la sua dignità artistica, ad arricchirne il mezzo espressivo, a conferirgli un senso stereoscopico più spiccato.
Per il regista di Ferrara, che in un’ironica invettiva immaginaria indirizzata a Samuel Goldwyn si autoproclamava “colorista” e supplicava il produttore di fargli girare un film, il colore non sarebbe venuto dall’America, ma bensì dall’Europa, chiamata idealmente a farsi carico dell’impresa di teorizzare un’estetica cinematografica quantomeno appropriata. Da questo punto di vista, quello che Antonioni realizza, in seguito, con la sua prima opera a colori, Il deserto rosso (1964), somiglia moltissimo a un atto stilistico fondativo, come se da cineasta fosse riuscito letteralmente a dare corpo alle intuizioni visionarie del teorico.
A sessant’anni di distanza dall’uscita del film (presentato alla Mostra del cinema di Venezia, dove ottiene il Leone d’oro), resta innegabile la portata rivoluzionaria e altamente sperimentale di quelle immagini, che oltretutto prefigurano l’urgenza della questione ecologica, filtrata attraverso una potente lente autoriflessiva in grado di includere ambiente, malattia mentale e colore in un’unica architettura sinestetica (all’interno della quale gioca un ruolo fondamentale la musica elettronica di Vittorio Gelmetti).
Com’è noto, nella pellicola non c’è alcun deserto fisico. A essere tragicamente “desertificati”, ossia messi a nudo, sono altri paesaggi: la zona industriale del porto di Ravenna, avvolta da una coltre di miasmi e di suoni misteriosi, ma soprattutto il paesaggio umano rappresentato dall’alienata antonioniana per eccellenza, la fulva Giuliana (Monica Vitti). attraversa la sua folle chioma – non a caso, è lei a pronunciare la frase più bistrattata dell’intera quadrilogia, quel “Mi fanno male i capelli” che, nel corso degli anni, certi irriverenti detrattori si sono permessi di imbracciare come un’arma contro la presunta debolezza dei dialoghi. Così come rosse (sanguigne) sono le pareti interne del casolare in cui ha luogo il rituale afrodisiaco. E rossa è, anche, la patina rugginosa che incrosta il fianco di un’enorme nave nella scena in cui Giuliana rivendica il dogma tautologico definitivo: “Io devo pensare che tutto quello che mi capita è la mia vita”.
Per provare a comprendere lo stato di profonda nevrosi che affligge questa enigmatica protagonista, non basta riferirsi allo strappo inferto dallo sviluppo industriale alla rete di connessioni tra uomo e natura. Giuliana è un corpo-soglia, forse il più eccessivo e sfuggente tra quelli plasmati dall’immaginario del pigmalione Antonioni. Nelle sue erranze patologiche coesistono e si annullano tutti gli opposti possibili: interno ed esterno, presente e passato, vita e morte, soggettività e oggettività, percezione e allucinazione, bellezza e orrore, desiderio e apatia, realtà e finzione, personaggio e paesaggio. Il risultato è una sorta di “mondo totale”, come lo definisce Jean-Luc Godard: una pienezza aurorale che lo sguardo del cineasta sfiora dopo aver attraversato fasi filmiche di parziale oscurità – ravvisabile fin dai titoli (L’avventura, La notte, L’eclissi).
Secondo Antonioni, Il deserto rosso deve essere “sentito” prima ancora che capito. Lo spettatore fatica a trovarvi un senso, soprattutto se si ostina a ricercarlo lungo direttrici logiche, morali, mimetiche o narrative. Il motivo è che, nel suo cinema, la verità non coincide quasi mai con il senso, per dirla à la Roland Barthes, ma si stempera armonicamente nella dimensione della poesia, che di per sé non è mai insignificante. Ecco perché non c’è deserto. Ecco perché i colori del film ci appaiono trasfigurati ad arte: come un pittore, Antonioni modifica volutamente il profilmico ricreando tonalità decisamente poco realistiche o convenzionali.
D’altronde, vent’anni prima, il giovane critico citava l’Estetica di Hegel, Matisse e Gauguin per corroborare le sue convinzioni (e non dimentichiamoci che, a un certo punto, Antonioni si mette effettivamente a dipingere quadri e a fare mostre). Nel doppio salto mortale dalla penna alla macchina da presa, il colore diventa una eco, un riverbero, una modulazione, un’impressione mutevole, votata necessariamente a esaurirsi.
Non sapremo mai perché il deserto è rosso, Antonioni non credeva che esistessero colori fissi in relazione alle cose, ai luoghi e alle persone: possiamo però presumere, con un discreto margine di sicurezza, che ai suoi occhi quel riflesso apparisse soddisfacente per tradurre il particolare accordo fotogenico sprigionato dalla fisionomia imprevista di Monica Vitti. L’essenziale è che il colore ci sia, il resto ha poca importanza.