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“Mi colpisce come non si capisca che questo è un diritto fondamentale dell’uomo, ovvero avere diritto al proprio nome e cognome. Ed è anche un diritto dei familiari che restano. Su questo tema c’è un’enorme indifferenza”. Il tema è quello degli Sconosciuti Puri, definizione gergale dettata dalla dottoressa Cristina Cattaneo e del suo team nella sala autopsie per chiamare quei corpi o quei resti che vengono ritrovati e che non è possibile identificare immediatamente. Su questo argomento ci hanno fatto un film Mattia Colombo e Valentina Cicogna, presentato in anteprima al MedFilm Festival.
Come avete conosciuto Cristina Cattaneo? “Anni fa dovevo scrivere un film di finzione, un crime, con una scena di autopsia e sono andata a parlare con un medico legale per non scrivere sciocchezze- racconta Valentina Cicogna-. Avevo letto i suoi primi libri tra cui Morti senza nome. L’ho conosciuta al Labanof, il laboratorio di antropologia e odontologia forense che si occupa di questo fenomeno abbastanza sconosciuto. Pochi anni prima avevo perso mia madre e non mi rendevo conto che ero in qualche modo una privilegiata perché avevo un posto nel quale andare a piangere che fosse un cimitero o una tomba. È un privilegio poter dire addio a un proprio caro. Tante persone al mondo perdono dei familiari che non vengono identificati. Sul Guardian, pochi giorni fa, si parlava di quante persone a Gaza non potranno seppellire i propri cari e di quanto questo sarà un tormento per loro. È importante avere la certezza che la persona che hai amato si ritrovi in un posto al sicuro”.
E Mattia Colombo aggiunge: “Ho conosciuto Cristina e mi sono innamorato del suo coraggio e della sua passione umanitaria. Ho scoperto il lato profondamente umano della scienza forense. Mi affascinava che nel lavoro del laboratorio Labanof si parta da piccoli frammenti per ricostruire un’identità che poi è una storia. Anche noi documentaristi in qualche modo facciamo la stessa cosa partiamo da piccoli indizi per poi ricostruire una storia”.
Otto anni di realizzazione. Un anno solo per convincerla a sedersi. “Cristina è una donna super impegnata- raccontano-. All’inizio lei era in Sicilia a fare le prime autopsie sui corpi recuperati dai barconi. Era nell’occhio del ciclone. Inizialmente era preoccupata dal nostro approccio molto osservativo. La spaventava aprire le porte del laboratorio. Poi ha capito che si poteva fidare di noi. Ci è voluto tanto tempo per realizzare questo doc, ma, grazie all’attesa, siamo anche riusciti a raccontare la storia della donna albanese che ha perso la sorella e ha aspettato 25 anni per poterla identificare, era morta nel 1996. E poi c’è stato il finale ovvero quello in cui Cristina arriva al Parlamento europeo e comunica per la prima volta il suo messaggio. In effetti all’inizio questo film voleva essere una riflessione sull’identità, ma poi è diventato il racconto di una battaglia politica perché identificare è un diritto non solo per la persona che non c’è più, ma soprattutto per chi resta”. Tant’è che in concomitanza con la data di uscita al cinema, programmata a primavera 2024, con Opendbb, i due autori porteranno avanti una campagna per fare in modo che l’Europa avvii una legge che obblighi gli Stati ad identificare e ad aprire una banca dati per facilitare le identificazioni e i ricongiungimenti con le famiglie.
Ma cosa vi ha colpito di più di questa storia? “Io per primo all’inizio facevo fatica a capire l’urgenza di identificare- risponde Mattia Colombo-. Poi stando continuamente a contatto con la morte e con i parenti mi sono accorto di quanto sia qualcosa di fondamentale e necessario. Diamo per scontato questa cosa perché non pensiamo che possa capitare a noi. E non ci rendiamo conto di avere un privilegio. Ci sono migliaia di famiglie che vivono continuamente questa situazione. Talvolta ci è capitato di rispondere alla domanda: ma perché Cristina fa questo? È qualcosa di innato in lei così come in tutti i suoi collaboratori”. E Valentina Cicogna: “Tante persone chiedono a Cristina; ma perché occuparti dei morti quando c’è così tanto da fare per i vivi? Questo spesso soprattutto in relazione ai migranti. La risposta è che non è solo una questione di dignità e rispetto dei morti, ma in questo modo ci si occupa anche dei vivi ovvero dei familiari. In un mondo così sensibile come quello dei doc ci siamo sentiti fare la stessa identica domanda. Tanti ci dicevano: non potremmo semplicemente buttare una corona di fiori nel mare? Continuamente ci siamo sentiti chiedere ma perché Cristina fa quel che fa. Cercavano sempre un trauma o un evento nella sua vita passata che potesse giustificare il fatto che lei combatte questa battaglia. Non era sufficiente rispondere che era la cosa giusta da fare”.