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La stranezza @Webphoto
I premi alla cinematografia nazionale non sono solo celebrazioni. Non sarebbe nemmeno il loro scopo più importante. Servono semmai a segnalare lo stato delle cose nello stato dell’arte, ricorrendo agli esempi più rappresentativi, opere capaci cioè di restituire del proprio paese un’immagine condivisa e riconoscibile, per quanto possa apparire distorta, parziale o persino caricaturale.
I David di Donatello non fanno eccezione. Solo limitandoci ai cinque film che si contenderanno il premio più importante: non riflettono forse qualcosa di palpabile e insieme di profondo dell’Italia di oggi? Non ci dicono in fondo che manca un ricambio generazionale importante nel cinema italiano a livello di autori? E che, conseguentemente, avvertiamo anche qui una cesura sul domani, una scarsa propensione ad assumere il futuro come prospettiva, non solo narrativa ma financo discorsiva? C’è molto passato (nelle storie nei temi, nel sentimento) e molto classicismo (è un linguaggio sovente colto, raffinato, raramente nuovo dando a questo aggettivo una valenza neutrale). E ci sono, ad eccezione dei “belgi” Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, i soliti maestri: Bellocchio, Martone, Amelio, più un outsider colto e di lungo corso come Roberto Andò. Sì, è vero: tra i registi esordienti troviamo tre donne (ma anche un’età media sopra i 40 anni). E la scelta di non guardare ai formati candidando una serie come Esterno notte tra i film (nel rispetto peraltro del regolamento, visto che era uscita in sala) segnala la giusta sintonia con il presente dell’audiovisivo e del questionare intorno. Una sintonia che però non cancella né potrebbe un certo immobilismo produttivo in cui il sistema Italia pare avvitarsi. Né l’ossessione per il passato (eloquente che i due titoli diretti dai più giovani - Amanda e Margini - siano entrambi, pur se in forme diverse, due film sull'incapacità di crescere).
È in definitiva lo specchio fedele di un paese alle prese con una crisi demografica allarmante, dunque di rigenerazione socio-culturale, quindi di immaginario. Là, fuori dallo schermo, c’è il paese reale incartato nelle fantasie, nei problemi venduti dai maître à penser della sfera pubblica, nelle beghe di un eterno scontento e nelle fazioni di oggi e di allora, congelate nell’incantesimo di un ottuso presente-passato. Incapace di uno scatto coraggioso in avanti, verso un modello originale, vitale, sostenibile, europeo. Qua, nel rilievo luminescente di uno schermo c’è il giudizio, il lampo della storia che rimbomba nell’ora del momento, la genesi del fuoco per vedere dentro la caligine del dopo.
Fondamentale chiarire come il miglior cinema italiano lavori sullo scarto, non sul rispecchiamento. Perché, se è vero che sentiamo un po’ tutti questa paralisi del domani - il retaggio di catene che pesano il destino anagrafico collettivo e un la maledizione della nostra cultura storica - va da sé che la luccicanza dell’arte (quanto è importante preservarla e sostenerla accanto all’efficienza di una media produzione industriale!) ci aiuta a scontornare l’identikit della nazione e dunque a provare, quantomeno sul piano dell’analisi e dell’immaginario, a liberarla da sé stessa. Come nel Moro di Bellocchio, tanto quello di Buongiorno, notte quanto quello di Esterno notte, almeno nella fantasia della “Bella addormentata” del Potere, ovvero il Cossiga di Fausto Russo Alesi. Sempre più storiografo visionario del paese, è il nostro autore che prima e meglio di ogni altro ha compreso come non ci possa essere nuova storia per l’Italia senza prima liberarsi della vecchia, la storia d’Italia nota e opaca, chiacchierata e oscura, nascosta tra le intercapedini dei fatti dove la verità è sorda e la giustizia un lamento.
Così, quel paese incapace di fare i conti con il proprio passato diventa agli occhi e con occhi di Bellocchio - in particolare in Esterno notte, dove il grumo poetico si scioglie in efficace prosa televisiva – il paese fondato sul passato: viverlo e riviverlo, unendo i molti punti di vista, separando le sensazioni dalla cronaca, captando la corrente interiore della vita al di sotto degli epifenomeni della storia. Se da un parte il raccordo con il passato avviene seguendo un progetto di autenticazione centrato sulla mediazione linguistica del dispositivo più che sulla pura trasparenza dell’immagine documentale (si è parlato a proposito di montaggio intermediale, mutuando una formula speculativa di particolare fortuna come l’immaginazione intermediale di Pietro Montani), dall’altra a emergere forte in questo lavoro il “compito etico” che il regista assegna al processo di revisione storico, ovvero riattualizzare l'eco di quelle che Walter Benjamin chiamava le "voci mute" della Storia, di cui il cinema di Bellocchio rende testimonianza lasciando che “risuoni ineliminabile l'idea di redenzione” (W. Benjamin, Sul concetto di storia).
È il fattore umano, l’ineffabile dramma della persona che si staglia sullo sfondo dei grandi e stupidi ingranaggi della Storia. Persone e personaggi si confondono anche ne La stranezza di Roberto Andò, dove le premesse del Sei personaggi in cerca d’autore ci ricordano come tra cinema, teatro e letteratura possono cambiare i codici ma la linfa sempre quella resta: il Pirandello in crisi creativa ritrova ispirazione dall’osservazione/passione della vita umana, mentre con questo film Andò affina la sua idea di cinema romanzesco opposto a cinema letterario, laddove il romanzesco è “un modo diverso d’investigare la realtà”, “un’opzione dell’immaginazione”. Strana la sintonia con l’idea di Bellocchio. Ma la ricalibratura storica attraverso l’umanissimo immaginario degli affetti attraversa pure Il signore delle formiche di Gianni Amelio, dove la rilettura del caso Braibanti è più monito alla salvezza attraverso la libertà di amare che processo all’Italia e all’indecenza civile; e la ritroviamo, seppure con meno vigore ideologico e corollario estetico, negli altri due titoli candidati, Nostalgia di Martone e Le otto montagne: entrambi di ispirazione letteraria (la letteratura si conferma il più gettonato filtro discorsivo sul mondo per il nostro cinema d’autore), segnalano ambedue un’estraneità rispetto a uno spazio e un tempo, una dislocazione perenne del desiderio dalle possibilità.
Nell’opera di Martone questo si traduce in senso di estraneità rispetto a una città-mondo come Napoli; nel caso de Le otto montagne in uno sentimento di irreparabilità delle cose. Se nelle opere “d’epoca” di Bellocchio, Andò e Amelio il passato non è più una terra straniera ma quella da cui comunque si deve ripartire se si vuole approdare al futuro, in questi due titoli il punto di partenza è il presente in ricognizione sul passato, rivisitato però con occhi già disincantati e dunque perso inevitabilmente. Da una parte c’è una traccia, dall’altra già un giudizio. Il pendolo del migliore cinema italiano oscilla tra questi due poli sentimentali. Mentre il Paese reale ora vuole ma non sa, ora deve ma non vuole.