È il primo film italiano a passare nel concorso della Festa di Roma, La cura di Francesco Patierno, libero adattamento del classico La peste di Albert Camus. Una trasposizione calata nella contemporaneità della pandemia.

“Abbiamo cominciato le riprese nei primi cinque giorni del lockdown – ricorda il regista – e ci siamo subito accorti che stavano succedendo alla troupe cose che avremmo dovuto raccontare nel film. Amo le strutture non lineari, volevo che realtà e finzione si alternassero fino a fondersi ma in maniera non meccanica, senza che lo spettatore se ne rendesse conto”.

Quante Peste c’è nella Cura? “Mi interessavano i temi di Camus, un grande cinico che aveva individuato nella solidarietà e nell’amore i rimedi contro la malattia e la morte”.

Un film che è quasi un laboratorio, che per gli interpreti ha rappresentato una sfida. “In fondo – spiega Francesco Di Leva, che dà vita al medico Bernard – abbiamo seguito lo stesso metodo di Camus: prendere in prestito il protagonista per dire cose personali, usare gli attori per mettersi al servizio dei personaggi”. Sin dalla fase di scrittura, Di Leva ha lavorato fianco a fianco con Patierno e Andrej Longo: “A differenza del romanzo che aveva trovato la forma del contagio nei topi, nel nostro caso il contagio ci stava addosso, sui nostri abiti. Per noi un forte riferimento è stato il finale del libro, quando la peste finisce ma Camus scrive di non festeggiare perché il morbo è ovunque e può ritornare”.

Cristina Donadio è Cottard, che rispetto al testo originale passa dal genere maschile al femminile: “Un’esperienza indimenticabile, abbiamo girato vivendo una precarietà che sfuggiva a noi stessi. Cottard rispecchia il lato oscuro dell’umanità, è il simbolo di chi ha sfruttato il Covid per arricchirsi”.

La cura
La cura
La cura

“Io e Lambert ci sovrapponiamo – spiega Francesco Mandelli – perché il personaggio del romanzo è un giornalista rimasto intrappolato in città e impaziente di fuggire e io interpreto un attore milanese chiamato in una Napoli bloccata. Non è stato molto faticoso perché Lambert era già dentro di me. Non sapevamo bene che esito avesse questo progetto, per me è interessante uscire dalla mia comfort zone”.

Alessandro Preziosi è Tarrou, che nel romanzo è l’organizzatore delle squadre di soccorso agli ammalati: “Mi sono subito allineato al personaggio, costruito con dovizia e scrupolo, e a differenza degli altri non ho mai avuto un cortocircuito tra realtà e finzione. Eppure solo ora mi rendo conto della portata emotiva del mio ruolo”.

“Di solito – riflette Antonino Iuorio, che nel film dà la sua versione del buon Grand – mi toccano in sorte personaggi sui quali devo sospendere il giudizio. Non ho ricordi precisi delle riprese, ci siamo mossi dentro una specie di magia, tutto è vero e tutto è sognato”.

Peppe Lanzetta è il sacerdote che prima vede il virus come un castigo per i peccati e poi si vota alla causa dei malati: “Io e Patierno ci rincorriamo da tanti anni. Le omelie del prete mi sono rimaste addosso per un anno, è stato difficile liberarsi di quelle parole antiche ma contemporanee. Nella nostra società si respinge il dolore: ma dal dolore non c’è scampo. E per alcuni con una certa predisposizione alla sensibilità la pandemia ha avuto una funzione catartica: sono diventati più veri, solidali, fraterni”.

Ma forse la vera protagonista del film è Napoli, spesso presente nell’opera di Patierno: “Volevo raccontarla attraverso un’operazione larga, che non fosse vincolata all’instant movie, con un meccanismo istintivo, metacinematografico di cui ho preso consapevolezza solo in un secondo momento. Napoli è madre, non padre: una città in perenne attesa, che crolla, non si può aggiustare, ma ha un’energia incredibile”.