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Animali selvatici
“Il nostro è un mondo fatto di populismo e ipocrisia. Bisogna educare la gente alla democrazia. Ci si aspetterebbe che una comunità abitata da una minoranza di un altro paese mostrasse più empatia verso una minoranza ancora più piccola. Soprattutto da parte di una comunità che per cercare una vita migliore si sposta tendenzialmente verso ovest. Invece non è così”.
A parlare è il regista rumeno Cristian Mungiu che oggi ha presentato il suo R.M.N. (questo il titolo originale), da noi Animali selvatici ("non l'ho suggertito io, ma mi fido del mio distributore italiano"), dal 6 luglio al cinema distribuito da Bim Film.
Vincitore della Palma d’Oro nel 2007 al Festival di Cannes con 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, Mungiu questa volta porta sul grande schermo (dopo averlo presentato in concorso a Cannes nel 2022) la storia di Matthias (Marin Grigore), un uomo che dopo aver lasciato il suo lavoro in Germania torna nel suo piccolo villaggio in Transilvania a pochi giorni da Natale. Vorrebbe seguire suo figlio Rudi, un bambino che ha smesso di parlare (“timoroso del mondo, ha perso la parola”), e che da tempo è affidato alle cure della madre Ana (Macrina Barladeanu), allo stesso tempo è preoccupato per suo padre Otto (Andrei Finti), che ha un cancro al cervello, ma è anche ansioso di rivedere la sua (ex) amante ungherese Csilla (Judith State). Nel frattempo un gruppo di nuovi lavoratori singalesi viene assunto in un panificio locale per facilitazioni europee dal piccolo stabilimento che Csilla dirige. A quel punto la pace della comunità viene turbata, gli adulti cadono preda di paure ancestrali e la xenofobia dilaga. L’avidità capitalistica anche.
Scritto e diretto da Cristian Mungiu (Un padre, una figlia; I racconti dell’età dell’oro), questa coproduzione Romania-Francia-Belgio affronta la politica, la storia, e tanti altri temi come la solidarietà e l’egoismo. “La storia parte da qualcosa di reale, è basata su fatti veri - racconta Mungiu -. Tutto nasce da un evento che si è verificato poco prima della pandemia, in un piccolo villaggio di una regione della Romania, in Transilvania, prevalentemente abitato da ungheresi. È una storia non distante da quella del film: la fabbrica che produceva il pane era a corto di lavoratori locali e quindi sono stati assunti questi lavoratori singalesi. Questo fece scoppiare un grande scandalo prima in Romania e poi nel resto del mondo”.
E poi: “Mi sono documentato di persona su questa storia. Ho parlato con i lavoratori stranieri e con la proprietaria della fabbrica. A livello locale non si è dato grande importanza al fatto. La stampa invece lo ha fatto diventare una notizia. Il governo ha deciso che doveva reagire a questo problema sociale ed etico. Hanno quindi insistito che questi lavoratori potessero continuare a lavorare. È un evento che ha suscitato molte emozioni. Il governo voleva evitare il discorso della discriminazione nei confronti dei cingalesi e anche dei rom”.
E sul suo modo di girare dice: “Traggo ispirazione dalla realtà e dalla vita vera, ma non mi piace raccontare quel che effettivamente è successo. Ma cerco nelle storie le potenzialità di poter raccontare una situazione globale e cerco di capire perché noi esseri umani agiamo in determinati modi. Capire le differenze tra ciò che diciamo e quello che pensiamo. Ho un modo di girare particolare. Non amo il montaggio all’interno della stessa scena, ma uso molti piani sequenza. Non è dunque possibile improvvisare”.
Sull’attuale accoglienza degli ucraini da parte della Romania risponde: “In realtà noi rumeni abbiamo accolto gli ucraini in modo positivo. Siamo stati molto generosi. L’Ucraina è più vicina a noi e quindi ci si identifica di più con loro. È triste, ma è così. Le persone non riescono a esprimere lo stesso livello di empatia verso tutti. Per esempio quest’ultimo naufragio al largo delle coste greche ha avuto risonanza, ma non così tanto come quello del piccolo sommergibile Titan. Le persone sono tribali. E l’empatia va verso quelli che uno sente più vicini. Ma la parte del cervello che continua a crescere è proprio quella del lobo frontale che riguarda l'empatia”.
Infine conclude: “Ho voluto raccontare una comunità, racchiusa in questo piccolo villaggio, che non era aperta al cambiamento e temeva l’arrivo di altre persone. Loro volevano continuare a conservare il loro stile di vita tradizionale e avevano difficoltà a capire cosa fosse l’Unione Europea”.