PHOTO
Cristian Mungiu
Cannes, 27 maggio 2007. Sul palco della Croisette si assegna la Palma d’Oro. Il presidente della giuria Stephen Frears annuncia il vincitore: è Cristian Mungiu, regista romeno di 39 anni, che supera giganti come i fratelli Coen, Sokurov, Fincher, Wong Kar-wai. Il suo film 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni è la grande sorpresa dell’edizione, che apre un nuovo capitolo nella storia del cinema romeno. È l’inizio della parabola pubblica del regista, della sua notorietà nella comunità cinefila fino a renderlo un autore centrale del Duemila. Ma per capire chi è davvero Mungiu bisogna fare un passo indietro.
Nato a Iașinel 1968, secondo comune del paese dopo Bucarest, aveva conosciuto la caduta del regime di Ceaușescu a ventuno anni, potendo così accedere a un percorso di studio e lavoro relativamente più libero, seppure nella complessa transizione verso la democrazia. Dopo l’Accademia di Film e Teatro di Bucarest, si muove nel cinema coi primi corti e come assistente alla regia, tra cui per Radu Mihăileanu in Train de vie.
La Palma non è l’esordio nel lungo: Mungiu nel 2002 gira Occident, debutto ancora oggi imprescindibile per iniziare a leggere la sua poetica. Un titolo-nome che già contiene un chiaro indizio: l’Occidente è quell’orizzonte a cui i giovani romeni guardano a inizio millennio, ansiosi di aprirsi al capitalismo dopo l’era della chiusura comunista. Ma un miraggio è sempre deludente. Lo dimostra il racconto, la parabola di due fidanzati, Luci e Sorina, che per un banale incidente (una bottiglia in testa) incontrano un francese a cui lei si avvicina. La soluzione è migrare? Davvero l’Ovest è meglio dell’Est?
Il film, aprendosi simbolicamente su binari che si biforcano, è una commedia grottesca condita di amarezza, nell’intento di fotografare una fase di transizione, un passaggio incerto, insinuando il dubbio sulle reali opportunità del capitalismo. Lo stile è ancora embrionale, certo, ma importante per la nascita dello sguardo. Mai uscito nelle sale italiane, Occident verrà proiettato al Tertio Millennio Film Festival nella retrospettiva completa dedicata a Cristian Mungiu, che incontra il pubblico per una masterclass.
All’opera seconda la svolta: 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni è il racconto potente di un aborto, a tratti devastante, e soprattutto la carta d’identità di un nuovo autore. Romania, 1987: al crepuscolo di un regime ancora spietato la giovane studentessa Otilia aiuta l’amica Gabita ad abortire, ma l’interruzione della gravidanza è vietata. Mungiu segue la parabola attraverso il pedinamento delle ragazze, con cinepresa post-dardenniana ma occhio clinico, calandola in un realismo che viene ingrigito ad arte dalla fotografia, perché nella dittatura non esiste il colore vivido.
Attraverso macchina a mano e piani sequenza, emerge gradualmente il vero nucleo che non è l’aborto in sé, ma il ritratto agghiacciante di un sistema autoritario in ogni cosa, negli agenti di polizia come nelle minuzie del quotidiano, una cena o uno sguardo dell’altro. Il regista asciuga il risvolto “malincomico” dell’esordio e gira un film duro, disturbante, senza paura di osare visivamente come nella nota ripresa del feto sul pavimento, che non è un facile shock bensì la rivelazione definitiva sullo stato delle cose, dove porta la violenza di un divieto. Un thriller etico che anticipa il cinema di oggi scritto sul corpo delle donne.
Se la posizione di Mungiu può sembrare lontana e lo sguardo perfino troppo oggettivo, dunque senza empatia, è solo perché vuole consegnare a noi spettatori il peso di un giudizio, la capacità di elaborazione morale. Da qui in poi, il regista non fa mai lo stresso film anzi allestisce continui slittamenti, sia storici che politici, inquadrando questioni diverse per comporre un disegno complessivo della Romania.
Il ritorno all’ironia è solo nel progetto a episodi Racconti dell’età dell’oro, sceneggiato da Mungiu e girato da cinque registi per raccontare le “leggende” del paese delle meraviglie comunista anni Ottanta, come da propaganda. Il secondo vero colosso è Oltre le colline (2012): ispirato a un evento realmente accaduto è ancora la storia di due donne, Alina e Voichita. La prima torna dalla Germania per riprendere l’altra, rinchiusa in un convento ortodosso di rigidissima osservanza dominato da un prete padrone. I tentativi di Alina lentamente si avvitano nel nulla e scoppia un duro scontro con i religiosi; la ragazza viene considerata posseduta e di fatto torturata, legata a una croce priva di cibo e acqua, uccisa nel corso di un lungo esorcismo. Nel monastero scolpito nella neve, con una fotografia degna di Ceylan, Mungiu allestisce il suo film più lungo, 155 minuti: un accerchiamento graduale che forma la rappresentazione di un’autorità religiosa feroce, dominante nel paese oggi come ieri, non scalfita dai laici che peccano di concorso di colpa.
Nel successivo Un padre, una figlia del 2016 (titolo originale Bacalaureat) il cinema del regista si apre e diventa perfino più complesso, imbastendo un discorso sottile e stratificato sulla società romena contemporanea. Piccola città di provincia. La figlia, Eliza, è una studentessa che sta per ottenere la borsa di studio che la porterà in Inghilterra, ma per un incidente rischia di non passare l’esame; il padre, Romeo, si attiva in tutti i modi per evitare che il rendimento subisca una flessione. Uomo di saldi principi, già emigrato e tornato, si incarta in una rete di favori e nepotismi che lo portano a bussare ai notabili del luogo per aiutare la ragazza. Un film parlato che incide la società clientelare di oggi, ma attenzione: Romeo non è una banale figura negativa, il suo rovello morale ricorda alcuni personaggi di Farhadi, e lo sguardo di Mungiu sembra concedergli una forma di empatia al confine con la pietà. Un uomo che fa il male dalla parte del bene, schiavo del sistema che funziona solo così, con l’obiettivo di sostenere l’amata prole. La difficile lettura di Romeo rafforza ancora di più l’affresco della Romania corrotta.
L’ultimo titolo è R.M.N., in italiano Animali selvatici, Cannes 2022: un centro immaginario della Transilvania ospita un intrigo complicato, con storie e volti che si incrociano, ellissi e sospetti, all’insegna del razzismo scatenato dall’assunzione di lavoratori dello Sri Lanka nella fabbrica locale. Una metafora a partire dal titolo originale (risonanza magnetica, ma anche Romania) che racconta l’intolleranza e coltiva l’ambiguità, sfiorando di rimando perfino le politiche dell’Unione europea. Nei suoi film, dunque, Cristian Mungiu sta costruendo un vero e proprio atlante critico della Romania e per estensione dell’Europa: la repressione, la superstizione, la corruzione e la xenofobia vengono convocati nei racconti, suggeriti nelle inquadrature fisse e nei piani sequenza. Senza sconti per nessuno perché una situazione è tale per complicità generale, non ci sono innocenti. Non è un moralista Mungiu, solo un regista morale.