L’oggetto più importante di tutti nella campagna presidenziale, quello che decide davvero il futuro del paese, ha un’origine italiana. Nel nostro Countdown verso il voto per la Casa Bianca, siamo arrivati al momento decisivo: quello in cui finalmente, dopo fiumi di parole e di promesse dei politici, la scelta tocca agli elettori. E la loro arma è la scheda elettorale, che in America si chiama ballot. Ma sono pochissimi gli americani che sanno che il nome deriva dall’italiano pallotta, riferito a piccole palle colorate usate nelle votazioni pubbliche dell’antica repubblica di Venezia.

Novembre è il mese dei ballot, dei loro responsi e spesso delle polemiche legate alle modalità con cui vengono utilizzati negli Stati Uniti. Ogni stato, ogni contea rivendica la propria indipendenza nello scegliere il meccanismo di voto nello spirito dell’America federale. Con il risultato che ciascun cittadino si è trovato nel corso degli anni a votare in una molteplicità di modi. Non solo su fogli di carta, in presenza o per posta, ma tirando leve di macchinari complessi, toccando schermi digitali, punzonando schede.

E districandosi tra le molteplici elezioni che si accavallano nello stesso giorno: l’Election Day non è solo il momento della scelta del presidente, ma anche di senatori, deputati, governatori, procuratori distrettuali, sceriffi, con l’aggiunta magari di qualche referendum. Roba da passare mezz’ora nella voting booth, quella che da noi si chiama cabina elettorale, cercando di non sbagliare qualcosa. Quando ci sono vittorie nette, di solito il sistema funziona. Talvolta però tutto si inceppa, soprattutto quando i distacchi tra i candidati non sono evidenti.

È successo in Florida nel 2000, quando una manciata di voti nella contea di West Palm Beach risultò decisiva per assegnare la presidenza a George W. Bush o Al Gore. Alla fine ci volle l’intervento della Corte suprema per dichiarare vincitore il primo. Nel 2020 invece le cose andarono bene ai seggi, ma Donald Trump non ha mai smesso di parlare di brogli elettorali. Perché i ballott sono l’oggetto-simbolo della democrazia se le cose vanno bene, ma possono diventare la miccia di una ribellione se il loro uso viene contestato.

Cinematograficamente, c’è la differenza tra un film a lieto fine, uno drammatico e uno distopico. Se le elezioni filano lisce, il film si conclude con una grande musica patriottica e un paese pronto a scoprire una nuova presidenza. Ma Hollywood si interroga molto in questi tempi su cosa succede se invece le cose si mettono male, soprattutto dopo che la realtà ha superato la creatività degli sceneggiatori con l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021.

E allora il cinema si è messo avanti con gli scenari distopici, proponendoci in questo anno elettorale il peggiore dei futuri possibili, con Civil War di Alex Garland interpretato da una grande Kirsten Dunst. Uno di quei film che, come si suol dire, “fanno riflettere”, ma che lasciano sempre con il timore di essere ancora un passo indietro rispetto alla realtà.