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Lily Gladstone, Robert De Niro e Leonardo DiCaprio in Killers of the Flower Moon
La prima nativa americana della storia? La prima attrice tedesca? La seconda afroamericana dai tempi di Halle Berry? Un’altra di origini asiatiche dopo Michelle Yeoh? Una che ha già un premio in bacheca? Oppure una che l’aspetta da trent’anni? Una cosa è certa: quella per l’Oscar alla miglior attrice si preannuncia come la gara più avvincente da molti anni. Una categoria super competitiva, piena di performance che hanno lasciato il segno e, in molti casi, davvero “leading” dei rispettivi film.
Miglior attrice protagonista
Non c’è una vera frontrunner, il che è sempre bello, ma per Lily Gladstone, anima struggente di Killers of the Flower Moon, potrebbe essere la consacrazione: la trentasettenne musa del cinema indie, rivelata da Kelly Reichardt, potrebbe diventare la prima nativa americana a vincere l’Oscar, a cinquantadue anni dal discorso di Sacheen Littlefeather, inviata da Marlon Brando per ritirare la statuetta vinta per Il padrino, che condannò il maltrattamento dei nativi. Un premio che rappresenterebbe anche un riscatto simbolico.
C’è una grande attenzione attorno all’inquietante performance trilingue (tedesco, francese, inglese a seconda delle esigenze) di Sandra Hüller, scrittrice imputata per l’omicidio del marito in Anatomia di una caduta. L’Academy non si appassiona troppo alle interpreti europee, i precedenti sono pochi (Simone Signoret ma in lingua inglese, Sophia Loren, Marion Cotillard) ma stavolta sembra esserci più interesse. Caso più consueto quello della britannica Carey Mulligan, che nel ruolo della moglie di Leonard Bernstein è la vera, straziante protagonista di Maestro: all’attivo ha già due nomination, difficile che quest’anno manchi l’appuntamento.
La più lanciata al momento sembra Emma Stone, già Oscar per La La Land e ora in stato di grazia in Povere creature!, dove dà vita a un personaggio esplosivo che avrebbe fatto tremare i polsi a chiunque. Un’altra vincitrice del passato, Natalie Portman, ci riprova con May December. Ma è l’anno delle nuove leve, da Greta Lee, losangelina di origini coreane, sensibile protagonista di Past Lives, alla star R&B Fantasia Barrino che debutta sul grande schermo con The Color Purple.
E se Margot Robbie avrebbe tutto il diritto di ottenere la terza candidatura in carriera grazie all’hit Barbie, nemmeno stavolta sembra essere il giro giusto per Annette Bening, quattro volte nominata invano (la prima nel 1991): la sua titanica interpretazione nel biopic NYAD è un po’ passata sottotraccia (ma si spera nel supporto di Netflix).
Miglior attrice non protagonista
Qui, invece, i giochi sembrano già fatti. Da’Vine Joy Randolph, acclamata interprete di The Holdovers, in cui è una cuoca in lutto per la perdita del figlio ucciso in Vietnam, sta sbaragliando la concorrenza, raccogliendo quasi tutti i riconoscimenti dei circoli dei critici e non solo. Grazie alle due comprimarie di The Color Purple, Danielle Brooks e Taraji P. Henson, la categoria potrebbe diventare a prevalenza afroamericana e d’altronde non è così raro che due non protagoniste ottengano la nomination per lo stesso film (sette volte negli ultimi quindici anni). E tra due attrici già premiate con l’Oscar, cioè la due volte vincitrice Jodie Foster, allenatrice e partner di Bening in NYAD, e Julianne Moore, “scandalosa” madre e moglie in May December, c’è Emily Blunt a caccia della prima candidatura grazie al ruolo sofferto della moglie di Oppenheimer. E poi quattro madri: la femminista America Ferrera in Barbie (con quel monologo da antologia), la snob svalvolata Rosamund Pike in Saltburn, l’affettuosa Rachel McAdams di Are You There God? It’s Me, Margaret. e la fantasmatica Claire Foy di Estranei.
Miglior attore
Se tra le donne la gara è all’ultimo voto, la cinquina per l’Oscar al protagonista maschile si cristallizza ogni giorno di più. I frontrunner arrivano dai biopic. Bradley Cooper, clamorosamente trasfigurato in Leonard Bernstein in Maestro, ha ricevuto nove candidature in nove anni, a questo giro potrebbe raccoglierne altre quattro (film, regia, sceneggiatura originale, attore): che sia giunto il suo momento? Cillian Murphy, elegante e tormentato Oppenheimer, e Colman Domingo, che in Rustin celebra l’attivista per i diritti civili, sono in pole position per la prima candidatura in carriera: entrambi vantano esperienza teatrale, hanno capitalizzato stima e riconoscibilità con due serie (Peaky Blinders e The Walking Dead) e al cinema sono stati soprattutto comprimari.
Discorso analogo vale per Jeffrey Wright, che potrebbe suggellare trent’anni di onorato servizio tra cinema e serialità grazie allo scrittore frustrato nella satira American Fiction. È anche per Paul Giamatti, candidato nel 2006 per Cinderella Man ma soprattutto protagonista di Sideways di quell’Alexander Payne che ora torna a dirigerlo in The Holdovers come severo e riservato professore: sarebbe un Oscar inattaccabile per l’affetto e l’ammirazione nei suoi confronti.
Leonardo DiCaprio è una mina vagante, vincitore di uno degli Oscar più sospirati della storia, ora a caccia dell’ottava candidatura in trent’anni: Killers of the Flower Moon è il settimo film in un decennio di una delle poche, vere star del mondo, ed è come al solito un’interpretazione magistrale, meno “appariscente al solito”. Basterà?
E più di un altro veterano da tempo in attesa di una statuetta per la recitazione, cioè quel Matt Damon già Oscar per la sceneggiatura di Will Hunting nel 1997 e ora in corsa per Air diretto da Ben Affleck, sodale ieri come oggi, sono altri due attori che agognano una candidatura: Andrew Scott, magnifico protagonista del mélo onirico Estranei, potrebbe replicare l’impresa del suo partner in scena Paul Mescal, che l’anno scorso entrò in cinquina grazie al piccolo Afterlife; e Barry Keoghan, già nominato l’anno scorso per Gli spiriti dell’isola e ora mostruoso dominatore di Saltburn.
Miglior attore non protagonista
Anche qui la gara per un posto in cinquina non è particolarmente palpitante, anche se non si vede un vero vincitore all’orizzonte. Robert Downey Jr. ha dalla sua “la narrazione” più forte: candidato a 28 anni per Charlot, caduto nella tossicodipendenza, dichiarato fallito, risorto dalle ceneri, diventato star del box office grazie a Iron Man, è la fenice che vorrebbe consacrare una carriera grazie a un ruolo da villain, il Lewis Strauss che si rivela l’antagonista di Oppenheimer.
Difficile non considerare della partita due attori molto amati e da tempo in predicato di statuetta, accomunati da personaggi che, in un modo o nell’altro, sono espressioni del patriarcato: Ryan Gosling, straordinario Ken innamorato invano di Barbie e traviato dal patriarcato, e Mark Ruffalo, sconquassato dalla sete di libertà della protagonista di Povere creature!. Film in cui brilla anche Willem Dafoe, sotto un pesante trucco, che potrebbe accompagnare Ruffalo in cinquina.
E poi ci sono due newcomer, entrambi acclamati dalla critica: uno è Charles Melton, origini meticce e successo televisivo grazie a Riverdale, che sta facendo man bassa di premi grazie al ruolo in May December, in cui è il giovanissimo marito di Julianne Moore; l’altro è il ventunenne Dominic Sessa, studente problematico in The Holdovers. Attenzione anche a Sterling K. Brown, già star di This is Us e ora fratello sbalestrato in American Fiction, mentre sembrano meno forti Paul Mescal e Jamie Bell, presenze fantasmatiche di Estranei, e un pugno di ottimi interpreti come Glenn Howerton (BlackBerry), John Magaro (Past Lives), Holt McCallany (The Iron Claw) e Peter Sarsgaard (Memory).
Un discorso a parte merita il grande veterano dell’annata, Robert De Niro: ottant’anni, due Oscar, otto candidature dal 1975 di cui tre con Martin Scorsese, che lo dirige anche in Killers of the Flower Moon. In cui è assolutamente pazzesco, a maggior ragione considerando in quanti film scadenti appare regolarmente da due decenni: basterà un’interpretazione magistrale ed essere De Niro per avere un posto in cinquina?