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Francis Ford Coppola
Alla parola “maestro” si schermisce, con gentilezza sorniona, ma Francis Ford Coppola, maestro, lo è davvero. Lo è stato anche sul set di Megalopolis, la sua ultima fatica (letteralmente: più di quant’anni di lavoro, centoventi milioni messi di tasca propria), evento di pre-apertura della 19a Festa del Cinema di Roma e di Alice nella Città, dal 16 ottobre nelle sale con Eagle Pictures.
“Ho avuto una trentina di apprendisti – racconta il regista – ed è stato molto bello. È come in cucina: si lavora sodo così che lo chef possa notarti e magari rivelarti il segreto di una ricetta. Finché ci saranno giovani che ascoltano le lezioni di chi è venuto prima, il cinema non finirà mai”.
A Roma, Coppola ha ricevuto l’omaggio del Ministero della Cultura e di Cinecittà: la consegna della “Chiave di Cinecittà” (la seconda dopo quella donata alla neonovantenne Sophia Loren) e l’intitolazione di una strada, un viale, proprio negli studi. Un omaggio che consolida il forte legame tra il regista, vincitore di sei premi Oscar, e l’Italia: “È la patria dei miei antenati, ho dei ricordi indelebili. I cibi dimenticati. Le camminate in aeroporto con Nino Rota alla ricerca di un tema musicale per Il padrino. Attori fantastici come Leopoldo Trieste: gli americani vogliono che tu soffra con loro, gli italiani sono più risolti. Giganti come Roberto Rossellini, Francesco Rosi, Michelangelo Antonioni, Lina Wertmuller. E poi Roma: alle sue amiche, per darsi un tono, mia madre raccontava che studiavo al Centro Sperimentale”.
Proprio Roma è all’origine di Megalopolis, la “favola” che Coppola ha presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, in cui un artista geniale con il potere di fermare il tempo (Adam Driver) combatte contro il sindaco ultraconservatore di New Roma (Giancarlo Esposito) per salvare il mondo morente e ispirare speranza.
Sin dagli albori – spiega Coppola – il cinema si preoccupava di non spendere troppo, di realizzare progetti convenienti e popolari. Tutti conoscevano la storia romana, pensate al successo di libri come Ben Hur, così come i Vangeli. L’antica Roma era un ottimo materiale, tant’è che ogni cinque anni uscivano film ambientati in quel periodo. E se ci pensate è una cosa che più o meno avviene tutt’ora. È naturale: è una storia nota a tutti in luoghi noti a tutti. Anch’io ho sempre voluto realizzare un’epopea romana. Il dubbio riguardava lo stile che stile avrei scelto. Quando ho studiato La congiura di Catilina, ho capito che potevo ambientare questo film nella New York dei tempi moderni”.
Un progetto fortemente voluto e completamente autofinanziato: “Il cinema è sia arte che business. Il business impone che il cinema sia realizzato seguendo una formula, tipo la ricetta della Coca Cola: deve creare dipendenza, non si devono correre rischi ma solo evitare che l’impresa non s’indebiti. Ma io penso che il cinema sia un’arte: è importante rendersi conto che i nostri figli e nipoti vedranno un cinema diverso dal nostro, che noi non possiamo nemmeno immaginare. E questo è un concetto che va contro gli interessi di chi pensa che si tratti solo di business”.
“Megalopolis – continua Coppola – non è una formula: volevo che avesse un finale gioioso e felice, che lasciasse una speranza, invece tutti i blockbuster, anche quelli belli come Mad Max, hanno finali prestabiliti e seguono gli schemi. Megalopolis mi ricorda le prime proiezioni di Apocalypse Now: o lo amavi o lo odiavi. Eppure oggi Apocalypse Now viene proiettato ovunque e continua a guadagnare soldi”.
Inevitabili i parallelismi con la realtà americana: “La democrazia è a rischio – sentenzia Coppola – ma non m’interessa l’America in sé: bisogna liberarsi dei confini. Dovremmo ricordare quel che diceva Pico della Mirandola: l’essere umano è un genio che può risolvere qualsiasi problema. Guardate l’Italia, la metafora di tutto il mondo: ha il meglio di tutto, tranne in politica”.
Sulla necessità di investire in prima persona per potere realizzare il film non rinunci ad allargare la visione: “Nel film si dice che ‘Gli imperi crollano quando le persone smettono di crederci’. Ci sono due belle istituzioni che stanno morendo: il giornalismo, colpito da fonti inaffidabili, notizie frettolose e guadagni facili (il riferimento potrebbe essere alle accuse di cattiva condotta sul set rilanciate da alcuni media, ndr); e lo studio system. Ma credo ci sia una possibilità di rinascita: non sai mai cosa può esserci dietro l’angolo, dopo l’inverno c’è sempre la primavera”.
E tra omaggi alla famiglia (“Mia figlia Sofia è una grandissima regista, mio figlio Roman ha scritto Moonrise Kingdom, mia nipote Gia ha vinto al festival di San Sebastián, mio nipote Nicolas Cage lo conosciamo tutti… Il mio consiglio è giocare di più con i figli e far lavorare i robot”) e rimpianti (“Il dolore più grande è la perdita di mio figlio. E poi non ho girato Un sogno lungo un giorno come avrei voluto”), lo sguardo è al futuro: “Sono vicino alla morte ma vorrei fare altri due film: uno semplice, per divertimento, da girare in Italia; e un altro gigantesco. Non stiamo lasciando il cinema ai giovani come dovremmo. E il più grande riconoscimento è quando qualcuno mi dice che ha cominciato a fare cinema dopo aver visto i miei film”.