Tutto ciò che è stato detto su Megalopolis, con tutti gli aggiornamenti catastrofici sull’infinita produzione e tutti i commenti preventivi prima ancora che il film ci fosse, a Francis Ford Coppola sarà suonato come un deja vu. Disastro, fallimento, invendibile sono esattamente le stesse parole che il più titanico dei registi americani viventi sentì – e subì – nel 1982, quando all’indomani di Apocalypse Now s’imbarcò nella folle impresa (eufemismo) di Un sogno lungo un giorno.

La differenza è implicita: ai tempi aveva poco più di quarant’anni, cinque Oscar in bacheca, il trionfo del Padrino come garanzia, Apocalypse Now a suggellare un nuovo immaginario, un vero potere contrattuale; oggi ha superato gli ottanta, non fa un film dal 2011 (l’horror indie Twixt), non può vantare crediti con l’industria e per mettere su Megalopolis ha dovuto investire 120 milioni di dollari personali (parte del budget arriva dalla vendita dell’azienda vinicola in California). È cambiato tutto, non è cambiato lui.

Perché il suo sogno lungo una vita, un progetto accarezzato da sempre (la fantascienza fruita da bambino, la prima bozza di sceneggiatura sul set di Apocalypse Now, gli appunti raccolti per decenni, La congiura di Catilina a far da palinsesto), conferma quanto Coppola sia un grande teorico che rifiuta le teorie, l’architetto che concepisce una nuova realtà in cui convergono il dato oggettivo e quello finzionale, l’autore di un testo unico che persegue disperatamente la rifondazione del cinema stesso. Il cinema per interpretare il mondo, ricostruirlo, reinventarlo, riappropriarsene.

Francis Ford Coppola e Eleanor Coppola sul set di Apocalypse Now
Francis Ford Coppola e Eleanor Coppola sul set di Apocalypse Now

Francis Ford Coppola e Eleanor Coppola sul set di Apocalypse Now

(Webphoto)

Tornare a Un sogno lungo un giorno non è un ozioso esercizio critico – se non rivalutato, è ormai ampiamente riletto e valorizzato – ma una chiave d’accesso a Megalopolis. A partire dal tracollo esterno – quello finanziario della Zoetrope, lo studio fondato da Coppola che per concludere la produzione ipotecò la villa; e quello distributivo con gli studios in fuga vista la mala parata: gli iniziali 2 milioni diventarono 15 e lievitarono a 27 – come causa ed effetto di quello interno: il successo restò una promessa, l’hype si trasformò in spernacchio, il rifiuto del pubblico accompagnò il massacro critico, Janet Maslin disse che era “come se Rembrandt dipingesse uova di Pasqua”.

Si disse che la storia d’amore era banale, le immagini confuse, lo sforzo vano; eppure in questo cinema sul cinema e dentro il cinema erano già evidenti la stilizzazione del gesto, la sperimentazione elettronica, la riflessione metalinguistica. D’altronde è un film che arriva dopo la fine per annunciare un nuovo inizio: “This is The End”, cantava Jim Morrison all’inizio di Apocalypse Now, mentre Coppola chiudeva il decennio della consacrazione (da outsider a golden boy), del potere (l’autore che impone la linea all’industria), della libertà (il ripensamento dei generi tradizionali, l’ammiccamento alle avanguardie, l’ambizione artistica, elementi reali uniti a suggestioni lisergiche).

Un sogno lungo un giorno
Un sogno lungo un giorno

Un sogno lungo un giorno

(Webphoto)

Il cinema come utopia, saggio sulla visione e sulle immagini, luogo dove mettere in scena le infinita possibilità poetiche del montaggio, reinvenzione del musical (Gene Kelly fu consulente ma si scontrò con Coppola), spazio dove costruire l’illusione, spostare la realtà oltre i suoi limiti per esasperarla e restituirla al grande schermo. Nastassja Kinski circense che si muove in equilibrio su un filo, Frederic Forrest abbacinato dalle luci al neon, Teri Garr che cammina in campo lungo, la colonna sonora di Tom Waits, le ballerine che irrompono per strada in una finta Las Vegas. Quel che oggi ci appare nitidamente quale opera essenziale all’epoca fu respinta e dileggiata. E Coppola, cineasta totale, si trovò sommerso dai debiti, costretto a vendere gli studi della Zoetrope e a realizzare film per quadrare i conti.

Oppure no: perché, sì, il bellissimo I ragazzi della 56a strada è tradizionale per l’obbligo di far soldi, ma il coevo Rusty il selvaggio è un altro colpo di coda dell’autore (la realtà deformata, l’anima sghemba) e Cotton Club è un altro glorioso flirting with disaster (budget esorbitante, controllo labile, successo modesto, ma anche una macchina in cui esaltarsi a forza di dissolvenze incrociate e montaggi paralleli). Poi vennero il tenero Peggy Sue si è sposata, il severo Giardini di pietra ed ecco il sottostimato Tucker – Un uomo e il suo sogno, biopic sull’imprenditore concepito come musical. Coppola, che non può dirsi privo di ambizioni, arruolò i migliori: Betty Comden e Adolph Green, quelli di Cantando sotto la pioggia e Spettacolo di varietà, e Leonard Bernstein. Ma il sogno durò l’espace d’un matin e Tucker si svegliò senza canzoni (ma il musical è introiettato).

© 2024 Lionsgate
© 2024 Lionsgate
Megalopolis. Photo Credit: Courtesy of Lionsgate (Courtesy of Lionsgate)

L’autoritatto è nei fatti: quando racconta lo scontro impari tra il brillante self-made man e i tre colossi dell’automobile, sta parlando di se stesso, della tenuta dell’American Dream, del potere ingannevole (“il pubblico lo sa!” si sente all’arringa). Tucker c’est moi, l’autore arrivato sul tetto del mondo grazie ai capitali delle major, messosi in proprio e dunque fallito. E poi il terzo Padrino per “ricordare al mondo chi era e che potrebbe ritornare”, Dracula, il flop Jack, la boccata d’ossigeno commerciale de L’uomo della pioggia e poi il silenzio, Un’altra giovinezza a ridare fiato al desiderio creativo, Segreti di famiglia e Twixt per lasciare intravedere quel che potrebbe ancora essere e la parabola di Coppola si piega al destino in attesa della grande rentrée.

È struggente sapere che Megalopolis, il kolossal che vale una vita e – ancora – sancisce un’altra fine (della storia, del secolo, del mondo) per annunciare un altro inizio, arriva dopo la morte di Eleanor Coppola, moglie di Francis, avvenuta a un mese dalla prima mondiale a Cannes. Del maestro è stata sodale e testimone: a lei dobbiamo le riprese sul set di Apocalypse Now (Hearts of Darkness), a lei dobbiamo quel documento che ci racconta meglio di tutti il cuore di questo titanico costruttore di mondi.