PHOTO
Jacques Tati in Playtime
Facciamo un passo indietro. È il 1935 quando, ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin riflette sul valore e sul ruolo, per non dire sull’essenza, del cinema come medium tecnologico. Dopo le ambigue riflessioni in merito alla presenza dell’aura nell’immagine cinematografica e le considerazioni sul divismo come nuova forma di mistero cultuale, il teorico tedesco si confronta con le critiche dei teorici suoi contemporanei, che vedono nel cinema una forma di passatempo deleterio. Pochi hanno la grazia di costruire argomentazioni valide, anche quando ideologicamente posizionate (come Adorno), la maggior parte fa mostra di ribrezzo. Duhamel, per esempio, scrive che il cinema è “una distrazione per creature incolte, miserabili, esaurite dal lavoro, dilaniate dalle loro preoccupazioni, uno spettacolo che non esige alcuna concentrazione, che non presuppone la facoltà di pensare”.
Nella critica accecata dal classismo, Benjamin riesce a cogliere una fallacia metodologica: da quando le masse hanno ridefinito la fruizione degli artefatti artistici attraverso la loro partecipazione non è più fattibile ragionare attraverso le stesse categorie qualitative del passato. Chi si ostina a ignorare il cambiamento vuole mantenere il proprio capitale culturale attraverso il giudizio di merito estetico – undici anni dopo Sartre, nella conferenza “L’esistenzialismo è un umanismo”, spiegherà come la contemplazione sia l’ultima arma della morente borghesia salottiera – e per farlo essenzializza come negativi atteggiamenti naturali, come quello della distrazione.
Contro il luogo comune che la disattenzione offerta dal cinema alle masse sia una forma di invito all’ignoranza, Benjamin illustra come l’architettura, la forma d’arte non solo più longeva (sopravvissuta alla tragedia, all’epopea, alla pittura), ma anche più completa (considerando la sua funzione sociale), fondi la propria ricezione proprio sull’esperienza della distrazione o, meglio, su una sollecitazione performativa della distrazione. Secondo il teorico tedesco, quando si abita un edificio, e cioè si legge la sua struttura, si interpreta la sua funzione, si sfruttano i suoi strumenti, si impiegano infatti due tipi di fruizione: la fruizione ottica, interpretabile come l’approccio puramente oculare al dato visivo delle forme plastiche, e la funzione tattica, e cioè quell’atteggiamento abitudinario con cui si abita lo spazio. Nell’architettura è la funzione tattica a manipolare quella ottica, al punto da rendere il fruitore dello spazio un performer interpretativo in grado di processare informazioni percettive attraverso una distratta abitudinarietà.
Questa sublimazione dell’assenza di attenzione in una forma conoscitiva è tanto più importante tanto più si considera, aggiunge Benjamin con una stoccata geniale, che “i compiti che in epoche di trapasso storico vengono posti all’apparato percettivo umano non possono essere assolti per vie meramente ottiche, cioè̀ contemplative. Se ne viene a capo a poco a poco grazie all’intervento della ricezione tattica, all’abitudine”. In altre parole, nei momenti in cui il mondo cambia e le strutture cognitive si modificano, l’essere umano fa affidamento a quei linguaggi simbolici che trasformano il disorientamento in una virtù attraverso l’abitudine ripetitiva.
Per Benjamin, il Novecento avrebbe affidato questo compito al cinema, medium tecnologico in grado di potare a compimento le promesse dell’architettura (invece solo accarezzate dal dadaismo). Prevedeva infatti che, solo al cinema, la sovrapposizione tra l’atteggiamento ottico e quello tattico avrebbe generato un esaminatore distratto capace di elaborare non solo qualsiasi tipo di stimolo percettivo ma anche e soprattutto quel tipo di informazioni pericolosamente aggressive provenienti dalla modernità. Imparando ad eseguire, in uno stato di rilassamento cognitivo ripetuto, una serie di test sul campo del visibile, lo spettatore si sarebbe vaccinato contro l’impatto delle pervasive forze moderne, grazie a piccoli shock controllati del cinema, e avrebbe costruito un’armatura abitudinaria: non quella – chiamata habitus da alcuni sociologi come Pierre Bourdieu – della cristallizzazione nel corpo delle imposizioni costrittive dei poteri ideologici che vogliono controllare gli individui e la collettività, bensì quella pertinente a una consapevolezza del ritmo quotidiano (avrebbe detto Lefebvre) e della sua flessibilità interpretativa.
Quasi un secolo dopo possiamo guardarci indietro con curiosità retrospettiva, chiederci se il cinema sia riuscito a costruire questa abitudine per lo spettatore, e purtroppo riconoscere come l’intuizione progressiva, il sogno culturale del teorico tedesco, sia stata corrisposto solo da pochi idealisti. Registi noti per la loro idea di cinema totale, di cinema come arte assoluta sopra le altre arti, che hanno pensato al medium proprio in senso architetturale: per ripensare i limiti del linguaggio, o meglio, per riorientare l’esperienza degli spettatori e fornire strutture simboliche in grado di trasformare il trauma della trasvalutazione cognitiva in una piattaforma vivibile, in un linguaggio esperibile.
Prima degli scritti di Benjamin, paradossalmente, Abel Gance presentava a Parigi in anteprima mondiale il suo Napoléon, piegando il disegno dell’Operà al proprio schermo tripartito per rendere percepibile la portata del suo discorso allegorico sulla necessità di fondare un federalismo europeo, basato su un’arte napoleonica, e cioè illuminato dagli ideali di comunicazione cristica.
Quarant’anni dopo, nel 1967, Jaques Tati reagiva ai pericoli anestetizzanti della globalizzazione inscritti nella vita metropolitana mettendo in scena, costruendo, una metropoli vera e propria, da smontare poi attraverso il proprio umorismo atmosferico. Il suo Playtime doveva essere l’inizio di un ripensamento urbanistico, e poi di una rivoluzione linguistica – Tati provò a inventare film ibridati con il teatro dal vivo per portare le immagini tra gli spettatori – ma fu un fallimento: la scenografia in scala 1:1 avrebbe dovuto trasformarsi in un centro per il cinema, ma venne sostituita da un’autostrada e il progetto multimediale venne ritenuto impraticabile.
Sono utopie interrotte come queste, poi, ad aver ispirato i registi americani della New Hollywood a costruire immagini tanto grandi da ribaltare il mondo, a pensare all’industria come la struttura di base per una rielaborazione simbolica guidata dagli autori, e a far credere ancora, sempre di nuovo, malgrado ennesimi fallimenti storici, nell’ambizione di riscrivere e ricostruire lo spazio sociale con l’immaginazione artistica.
E nel nuovo millennio? Proprio ora che il cinema si è polverizzato nella costellazione sfocata che chiamiamo audiovisivo, gli utopisti dell’immagine – Francis Ford Coppola è forse l’ultimo di loro? – dovrebbero tornare a pensare a come fare delle immagini riproducibili, sempre più riprodotte, le chiavi di volta di un’architettura in grado di farci vivere meglio nel mondo. Contro tutte le forze contrarie.