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Sala quel che sarà. E ci piacerebbe davvero che Avatar 2, accreditato di un primo weekend globale da oltre 525 milioni di dollari, possa adiuvare alle sorti - invero attualmente poco – magnifiche e progressive dell’esercizio cinematografico. Successo o meno, non cambierà il panorama, meglio, non inciderà sul sistema: può un evento salvare un anno, può un’uscita galvanizzare il continuum? Certo che no.
L’eventizzazione non ci risolleverà, andare a vedere questo film non restituirà l’andare al cinema: La Via dell’Acqua non è quella della salvezza. Può una sala, dunque un esercente, tenere aperto per – speriamo – un mese di lauti incassi ogni due anni, giacché Avatar 3 arriverà nel 2024, Avatar 4 nel 2026? Non scherziamo, per rimanere nell’alveo acquatico si sono già sprecati ottimistici quanto stolidi fiumi d’inchiostro.
Fatta salva questa – credetemi – necessaria premessa, com’è il tanto atteso Avatar: La Via dell’Acqua?
Ambientato circa dieci anni dopo gli eventi del primo film (2009), segue la famiglia Sully (Jake, Neytiri e i quattro figli) tra battaglie, affetti e tragedie, e tagliamo corto.
Regia e, a sei mani con Rick Jaffa e Amanda Silver, sceneggiatura di James Cameron, interpretato da Sam Worthington, Zoe Saldaña, Sigourney Weaver, Stephen Lang e Kate Winslet, il sequel è bello a vedersi, non bello da vedere: l’aspetto visuale incanta, la narrazione stracca. È una distinzione che affonda nel Tempo, interpella i dodici anni di iato – una follia sopra tutto nel regno coevo dei franchise e degli Universi cinematici – dall’originale, sindaca l’upgrade, e update, tecnologico e insieme ci rituffa nel passato, perché insieme al film per bambini convoca il muto.
Intendiamoci, se probabilmente va letto quale (non intenzionale) silent film, certamente migliora se privato di dialoghi, pleonastici, didascalici o baciperugina, e musiche, tonitruanti e iterate ad abboffare gli orecchi.
Davvero muto, ovvero silenziato, è meglio. È questo - forzoso – ritorno al futuro il tema più interessante del sequel, il suo (ri)frangersi liquidamente tra la Settima Arte che fu, l’entertainment oggi, il lusinghiero e insieme ansiogeno (2.922.917.914 dollari) precedente, il suo rivoluzionare senza clamore la tradizionale sospensione dell’incredulità richiesta dal cinema allo spettatore. Ci crediamo a Sully e famiglia, immantinente, senza se e senza ma, e lungi dall’essere inequivocabile pregio è una spia d’allarme poetico, di più, ideologico: Avatar 2 deflette la fantasmagoria, diminuisce l’altro mondo possibile di Pandora, giacché non avoca a sé la trasfigurazione immaginifica di Méliès bensì il dispositivo riproduttivo, e senza la sconvolgente epifania del treno, dei Lumière.
Anziché realismo magico Avatar 2 è – smodato complimento – una magia realizzata in CGI e altri ammennicoli digitali, è il trionfo della tecnica rigogliosa, perfino mesmerizzante, su una poetica puerile, infantile, alimentata a Dio, patria e famiglia e imbellettata di sincretismo new age, afflati ecologisti, spirito postcolonialista (?) e altro Zeitgeist for dummies.
Oddio, sullo Zeitgeist ci sarebbe da dire: è sincronizzato al qui e ora questo secondo capitolo o, appunto, a dieci, dodici anni orsono? La protervia con cui Cameron inizia sparando nomi a caso a sfregio della nostra memoria – ma chi se li ricorda? – è più di una prova circostanziale.
Tanto apparecchia sul capro espiatorio, sul reietto, l’incompreso, il sacrificio sulla rotta Abramo e Isacco, quanto non è un pasto completo, abbuffa senza sfamare, è junk food stellato, non stellare, ché reifica l’immaginazione, sconfessa l’ermeneutica, divide in tre atti, yawn, et impera, financo ideologicamente.
Possiamo dunque bearci di questo futuribile ma non avveniristico diorama, che documenta il domani senza preconizzarlo, che dispone il di là da venire, malgrado le turgide apparenze, senza inventarlo?
Salviamo le creature del mare, i pescioni e i mammiferi, il riff in realtà aumentata, i punti luce sui Na’vi e mezzo Na’vi migliorati a immagine e somiglianza della tecnologia rispetto a dodici anni orsono, poi che altro?
Motion picture, mai emotion, Titanic nel blu dipinto (o stinto?) di blu, che – per ridire dell’immaginazione lillipuziana – rinnova il naufragio e manda a fuoco il mare, giacché a Pandora nel 2139 Cameron prospetta ancora il petrolio quale combustibile. Una forzatura scenografica, ok, ma grave.
Non fa pensare Avatar 2, non induce alla riflessione, non solletica i pensieri, titilla solo la percezione, soddisfa nel migliore dei casi nei 192 minuti di durata, e non un secondo di più. Perché non ha residenza nell’immaginazione e, più del primo, non avrà persistenza nell’immaginario – e sarà cruciale la resistenza o desistenza del pubblico per il prosieguo del franchise. Poi, se l’ironia è sintomo di intelligenza, che dire se la prima delle uniche due battute del film arriva dopo un’ora e un quarto?
Corre un rischio La Via dell’Acqua. Oltre a quello fisiologico - mi sono trovato a sorridere facendo pipì a due ore dall’inizio, era anche questa via dell’acqua.
Corre il rischio James Cameron, di sedersi lungo la riva del fiume e aspettare, e prima o poi veder passare il cadavere del suo Avatar.
Corriamo il rischio noi, di andare – il mantra “I see you” che è un pleonasmo inverecondo – a vedere il bluff.