Ci sono degli autori la cui arte è diventata un problema solo per essersi palesata in anni inadatti, culturalmente influenzati da un potere politico eccentrico e auto-difensore. Ma questa è stata anche la loro fortuna. E non è solo una questione di destra o di sinistra, parafrasando Giorgio Gaber, ma bipartisan. “L’ideologia, malgrado tutto credo ancora che ci sia. È il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché con la scusa di un contrasto che non c’è”. Luis Buñuel è un caso esemplare. È lo è per uno dei suoi capolavori: Viridiana, Palma d’Oro a Cannes nel 1961 e proibito in Spagna sino all’avvio della Transición post-franchista. Il giudizio di disprezzo per i poveri rievocava Las hurdes - Terra senza pane (1933), film che aveva sancito l’esilio del regista e che dichiarava la sconfitta della politica sociale franchista.

Il film è coetaneo a Luci d’inverno di Ingmar Bergman. In comune i due film hanno il tema della crisi spirituale dei protagonisti, una novizia e un pastore, la cui parabola spirituale con diverse situazioni, arriva alla deriva totale; ma le due opere non condividono lo stesso giudizio di condanna. Il film di Buñuel, poi, esce un anno dopo La dolce vita di Federico Fellini (1960), con cui ha in comune varie cose: l’attacco feroce de “L’Osservatore Romano”, dei cattolici, dei prelati e soprattutto, e ribadisco soprattutto, dei politici. Destino che condividerà due anni dopo con Pier Paolo Pasolini per l’episodio de La ricotta (RoGoPaG del 1963), accusato di vilipendio della religione.

Il film è visionario, ricco di segni che ne spiegano le virtù capovolte: il potente erotismo delle mammelle delle mucche; l’ape che sta per annegare e che viene salvata; gli oggetti della passione vissuta sino alla morte della vocazione; le ceneri simbolo di penitenza e di morte; il velo bianco della purezza, della consacrazione e della fedeltà; la corda per la gioia del gioco e il dolore del suicidio; il crocifisso custodia di un coltellino a serramanico; il gatto e il topo come strategia di seduzione; il montaggio alternato in stile sovietico dell’angelus e del lavoro degli operai; il camion e il carretto; i mobili vecchi in soffitta e il restauro, segni del conflitto tra arretratezza e modernizzazione. Suggestivo è il parallelismo del feticismo profano dello zio con quello sacro della novizia, un vecchio Giuseppe che sposa castamente una vergine.

Luis Buñuel
Luis Buñuel

Luis Buñuel

Altri segni di richiamo religioso sono la mela sbucciata e condivisa, il lebbroso allontanato, la colomba, l’angelus rosselliniano, l’ultima cena di richiamo leonardesco, l’ecce homo. I movimenti di macchina seguono i protagonisti in primo piano, con riprese strette, primi piani ridotti, sporadiche figure intere e rari totali, molteplici dettagli e particolari, frequenti zoom e carrellate, brevi piani-sequenza, a sottolineare l’investigazione dell’onestà o falsità dei personaggi.

Più che religioso Viridiana è un film politico. L’impianto religioso serve a Buñuel per disvelare le ipocrisie di una nazione che aveva sottoposto la convivenza sociale interna all’esaltazione dell’autorità nelle sue principali manifestazioni: lo Stato, la Chiesa, l’Educazione, senza modernizzazione (l’autarchia franchista) né liberazione culturale (il controllo censorio). La morale cristiana che il regista spagnolo critica è quella oscurantista e repressiva, avida di potere e di “doti”, complice di un dittatore forte che aveva persino contaminato le relazioni con la Chiesa di Roma. Non si può negare però la profonda atmosfera di religiosità suggerita sin dalle prime note dell’Alleluia del Messia di Händel, brano che ritorna spesso insieme al Requiem di Mozart e alla Messa in Si minore di Bach. Un motivo sacro, di musica colta, che fa da chiasmo incoerente con il brano jazz-pop di Ashley Beaumont Shimmy Doll che chiude il film e fa intuire la carnalità del finale aperto con uno zoom-in discreto, rispettoso del futuro passionale dei protagonisti.

Viridiana
Viridiana

Viridiana

(Webphoto)

La seduzione fallita al padre (don Jaime) riesce al figlio (Jorge) in un ambiguo menage à trois. Sgomberiamo subito il campo dalla superficialità di giudizi entusiastici e arbitrari. Viridiana è un film profondamente agnostico, dove viene rappresentato il pensiero di un regista che dalla scuola dei gesuiti ha ricavato il suo ateismo (“Sono ateo per grazia di Dio”, ha dichiarato). Non è un film irriverente, blasfemo, sacrilego, secondo le accuse dei quotidiani spagnoli, e della critica cattolica italiana, riguardo alla religione. L’aura di spiritualità che emana è laica, umana; sferzante sì, ma rispettosa dei segni e delle manifestazioni della fede.

È un’opera che si chiede i perché dell’imperfezione dell’umanità, della sua facile corruttibilità, dell’impossibilità della carità, del cinismo che regola la convivenza, dei desideri e delle passioni che deformano il bisogno di relazione e di amore, dell’abbrutimento dell’essere umano.

Al centro la battaglia donchisciottesca di una novizia che deve arrendersi davanti alle circostanze di una realtà umanamente degradata, perversa, iniqua. In essa la carità cristiana e l’impegno etico dei responsabili ne escono perdenti. Non sono i miserabili di Hugo né tantomeno i vinti di Verga. Sono pordioseros ipocriti, falsi, la cui avidità li ha resi “caini” e “abeli”. C’è tanta ferocia fra questi diseredati, poveri collerici, carogne disoneste, ipocriti e balordi, avvezzi al vizio e al turpiloquio. Non hanno fede e quella che appare è solo per interesse. È il fallimento della carità. In questa contingenza il progetto cristiano di Viridiana si rivela un’utopia senza speranza. Del resto la protagonista è l’unica ad aver resistito alle scosse subite dalla compassione sino però ad arrendersi inesorabilmente. Non potrebbe rivelarsi uno stimolo all’impegno evangelico credibile e coerente verso gli ultimi?