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Million Dollar Baby
Ho scelto di rivedere Million Dollar Baby, film che non ha bisogno di assoluzioni, né di riabilitazioni; che non ha causato scandalo alcuno, né prodotto “mea culpa” di sorta. Un film forte, a tratti impietoso, che affronta un tema delicatissimo della morale cristiana che ancora oggi può suscitare divergenze, diatribe. Il tema in questione è l’eutanasia.
Metto subito in chiaro, a scanso di equivoci e accogliendo l’enunciato del Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2324), che l’eutanasia è “gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore”; perciò è considerato un delitto equiparabile all’omicidio. Vorrei però tentare di leggere dentro il testo che è il film, e non nelle intenzioni “politiche” dell’autore – che a mio parere ha offerto un’occasione di riflessione su una materia delicata e complessa – senza mestare, rovinosamente, le foschie generabili dalla polemica.
L’eutanasia dunque costituisce il cuore palpitante di un film che però parla anche di altro: di sentimenti elemosinati e negati, di aspettative deluse e infrante, di relazioni interessate o interrotte, di bisogno di considerazione e protezione, di padri e di figli desiderosi di famiglia.
Il film si svolge in una periferia esistenziale, un posto sperduto fra il nulla e l'addio dove i bisogni primari sono in continua agitazione. Un luogo/non-luogo, e un tempo/non-tempo che travalicano l’hic et nunc americano che può essere qualsivoglia luogo in un tempo qualunque. Tale non-luogo è una palestra di boxe dove è di regola “proteggersi sempre, non abbassare la guardia”.
In essa operano Frankie Dunn, uomo duro ed esigente di origini irlandesi, dal tratto scorbutico, talent-scout di pugili; vive da solo da quando ha rotto con una figlia che non appare mai, ma la cui presenza si rende tale nella corrispondenza rifiutata e rinviata al mittente. Da 23 anni Frankie non perde una messa; stuzzica il parroco con le sue domande sui dogmi, e non riesce a perdonarsi qualcosa che lo tormenta.
Ha un collaboratore, Eddie Scrap, un vecchio pugile che aveva allenato, che ha perso l’occasione della vita insieme a un occhio da cui non vede più. Frankie lo ha tenuto con sé per senso di colpa: non è intervenuto al momento giusto per evitare il danno. Scrap adesso si preoccupa di pulire la squallida palestra. Sempre in penombra, è lui il testimone e narratore onnisciente di questa storia di eroi mancati. Con Frankie condivide la missione di sostenere gli scartati dalla vita.
Maggie è la protagonista, una ragazza che con la boxe vuole riscattarsi dalla povertà e dall’abbandono. Perciò si affida con entusiasmo e fiducia a Frankie, per bisogno di considerazione e per sopperire a una famiglia di perdenti come la sua. La morte del padre l’ha segnata, ma non ha spento la voglia di lottare. È una combattente nata, dal sorriso accattivante, ingenua e generosa, coraggiosa e determinata. Aver convinto Frankie ad allenarla è già un successo, e quando sembra che si stia concretizzando ulteriormente, la tragedia è inesorabilmente pronta ad attenderla.
“Winners are simply willing to do what losers won’t”, recita la placca di latta appesa in palestra. Lo stimolo però rimane sterile e il perdente rimane tale. I sogni di Maggie sono tragicamente paralizzati dalla scorrettezza, ma non vuole perdere ciò che ha ottenuto. E l’allenatore che non allena le ragazze non vuole assisterla nel suo ultimo combattimento. Prevale però un senso di pietà, frutto di una preghiera tormentata, di sensi di colpa e di fantasmi che potrebbero ancora una volta riapparire.
“Se fai una cosa del genere ti perderai – gli rimprovera il parroco – e finirai in un abisso. Non riuscirai mai più a ritrovarti”. Frankie però è ormai disposto a perdersi, ma non a perdere l’affetto di una figlia regalatagli dal caso. Lei è per lui “mo cuscia”: mio tesoro, mio sangue. Non l’abbandonerà mai.
Film di poche ed essenziali parole, compresa quella di Dio che si propone nella sua pietà misericordiosa nell’immagine del Figlio crocifisso e inerme. Anche la musica è minimale, discreta. La scelta dei chiaro/scuri accentuati e delle penombre, restituisce il travaglio esistenziale dei protagonisti, gente rifiutata e abbandonata come cani o spazzatura di cui Maggie e Danger sono emblemi e allo stesso tempo vittime dell’arrivismo capitalista e del liberismo individualista. La palestra è posta ai margini, alla periferia dei grattaceli che disegnano lo skyline dei vincenti, le Tower dei potenti, di cui appare un esemplare sulla fiancata di un autobus.
Million Dollar Baby ha un’aura che rievoca responsabilità sollecitate spesso, e a volte senza ascolto, da Papa Francesco a prendere le parti di una umanità impoverita dall’interesse e dal profitto. Esseri umani potenzialmente in grado, politicamente ed economicamente, di prendersi cura dei poveri, ma che giustificano la loro impassibilità con il timore di cedere a ideologie passate e sepolte dai totalitarismi di qualsiasi colore.
Film dosato, mai sopra le righe, mai melenso né patetico, Million Dollar Baby non racconta la borghesia intellettuale e benestante, disturbata da mali incurabili che ricorre al “fine vitae” per evitare di combattere, perché non ha mai combattuto con la povertà, non ha mai provato l’esperienza dello scarto.
Il film di Eastwood è popolato di gente che sopravvive, che cerca in un “sogno” da conquistare la sua ragione di vita; un sogno preso letteralmente a pugni, un’utopia dai setti nasali rotti e dagli occhi spenti; un’epica dei vinti in cerca di riscatto, una allegoria di passione e di resurrezione di sentimenti essenziali, asciutti, senza leziosaggini. Si può uccidere per pietà? È una domanda a cui rispondere con sincera onestà, e che impegna tutto l’essere umano con la sua intelligenza e il suo cuore.