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Sergio Castellito in L'ora di religione
Di recente, riferendosi a L’ora di religione, Marco Bellocchio ha affermato come sia cambiato “aprendosi” lo sguardo dei cattolici sinceri verso il suo cinema. Il film sollevò un’enorme ondata di indignazione nel mondo cattolico. Contiene una bestemmia che sorprende e spiazza lo spettatore, tra questi anche me. Effettivamente, non avevo mai sentito apertis verbis parole così dirette e cariche di blasfemia. “Molti di voi – continua il regista – capirono che esprimeva una disperazione, un dolore: non era un insulto, ma una preghiera”. E in effetti si tratta dell’urlo di disperazione di un matricida che si esterna nell’imprecazione. A essa corrisponde la forza di un abbraccio carico di comprensione che si rivela come pietas, suscitata da un’invocazione disperata, senza pace. Bellocchio ha ragione: in quella scena l’abbraccio carico di philía e lo sguardo dei protagonisti generano una compassione tale da sentirti visceralmente sconvolto e coinvolto. Ma non è su questo che mi voglio soffermare, quanto piuttosto sull’agire attorno al protagonista.
Ernesto non ha amato la madre, candidata agli onori degli altari, e lo dichiara apertamente. Chiamato dal cardinale a testimoniare sulle sue virtù, si accorge che il processo di canonizzazione è già in atto da tre anni, a sua insaputa. Ciò gli provoca una reazione di sorpresa e stupore, ma anche di ribellione verso quanto la famiglia aveva strategicamente programmato: inventare la vita di una santa che non c’è! Parole ambigue che rivelano un’intenzione machiavellica. Tutti si rendono complici svolgendo una parte in un dramma la cui regia è in mano alla stratega di famiglia, zia Maria, e i cui “attori” interpretano verosimilmente se stessi, sic et simpliciter.
La menzogna è messa in scena, una fiction il cui fine è nell’interesse di tutti e di ciascuno: riconquistare considerazione sociale. Irene, la moglie innamorata da cui Ernesto si è separato, per assicurare un avvenire al figlio grazie alla “nonna santa”. Ettore, con un passato di militanza violenta da riabilitare. Erminio, all’apparenza il più “normale” dei fratelli, per rinnovare il buon nome dei Picciafuoco. Eugenio, vescovo in missione (che non appare) per accrescere il suo prestigio di ecclesiastico. La zia, per riconquistare la reputazione di una famiglia che ha perso il pater: un’orfanezza istituzionale a cui porre fine. Lei è la zia paterna in questa famiglia di maschi che ha disfatto il credito di cui godeva in passato. Vuole ricostituirlo attraverso la figura della cognata uccisa dal figlio pazzo a causa di una relazione tormentata.
Ma per inventare una santa c’è bisogno di un miracolo e a ciò contribuisce l’ambiguo Filippo Argenti, nome che ricorda il personaggio dell’inferno di Dante, avversario politico e nemico dichiarato del Vate. Lo pseudonimo rievoca il vendersi di questo amico di famiglia, importante nell’infanzia di Ernesto, avido di ricchezze e carico di passioni poco conformi al suo stato di miracolato, disposto a collaborare per denaro al raggiro dell’unico ribelle della famiglia.
Ernesto si dichiara apertamente ateo. Non “ha battezzato” il figlio Leonardo. Vuole incontrare la insegnante di religione del bambino, che si rivela parte del piano. Leonardo manifesta un disagio rispetto al senso di Dio e di libertà inculcatogli dall’insegnante; la scena di apertura è rivelativa: “Se Dio è dappertutto non sono più libero, neanche un secondo… libero di stare per conto mio, di pensare da solo”.
Ernesto cura la “predisposizione” innata del figlio, e come Bellocchio – che ha ricevuto un’educazione cattolica in famiglia e dai salesiani – si ribella al conformismo e alla strategia di menzogna perché il bambino ne esca incontaminato. Non accetta intromissioni e manipolazioni, seppur convenienti, da parte di nessuno. Vuole essere libero di decidere, di salvarsi dall’ipocrita rappresentazione famigliare. E vuole difendere a modo suo Leonardo dal perbenismo di facciata. Perciò la sua giornata è una corsa senza interruzione di tempo per non lasciare che il figlio cada nella trappola predisposta dall’ipocrita zia, che disprezzava la cognata e non ha mai messo piede in chiesa.
Ernesto, a suo modo, è un personaggio puro, che vuole amare in modo laico; un artista che si schiera per la bellezza; che denuncia le incoerenze etiche, la catarsi “impura” ordita dalla zia con la conversione di famiglia alla divinità dell’interesse e della fama in cui conta soltanto l’apparenza: convertirsi per sopravvivere.
Ernesto è scomodo, addita altre antinomie sottolineate icasticamente dal sorriso che non è quello della madre: “un sorriso indifferente, mortale perché di chi pensa che ti ha in pugno soltanto perché ti ha messo al mondo”; ma non è neanche “il sorriso di chi vuole sfottere il mondo”, come gli rimprovera la zia o le altre figure del film. “Solo oggi tre persone mi hanno scoperto mentre sorridevo: il cardinale Piomini, il conte Bulla, la zia Maria”. Il suo è un sorriso di scetticismo alle verità delle autorità ecclesiastica, politica e familiare che falliscono quando tradiscono il valore che contraddistingue il loro impegno: l’agapé cristiana, la politiké civile, lo storgé familiare. Sono carismi costruttivi solo quando sono “interpretati” senza strategia né interesse. E karisma vuol dire miracolo, sorpresa.
Che cosa leggo nel film di Bellocchio? La sincera e ragionevole volontà di sorprendere e sconvolgere. Ciò che disturba del film non è solo la spiazzante e improvvisa bestemmia, ma l’ipocrisia che uccide la vita e i “carismi”, che riduce le relazioni in passioni e martiri, che non produce il sorriso, espressione di gioia o di equilibrio. “Mia madre è una assassina. Infatti ha assassinato Egidio che non ho mai visto sorridere... Io non voglio sorridere più!”
Forse bisognerebbe operare una catarsi, una conversione sincera, per non ammazzare il sorriso e la vita.