C’è un film, di questi ultimi anni (2021), di cui non riesco a capire sino in fondo le ragioni di un titolo che a mio parere può trarre in inganno. Porta lo stesso titolo del romanzo di Edoardo Albinati, La scuola cattolica, Premio Strega 2016. Al film bisogna riconoscere il fatto di aver fermato con immagini e atmosfere di tutto rispetto una pagina nera della storia italiana che tutti non avremmo mai voluto fosse scritta. Quest’anno ricorrono i 50 anni da quel disumano episodio (era il 1975 e la violenza era all'ordine del giorno) conosciuto come il massacro del Circeo in cui vennero uccise, dopo essere state rapite, stuprate e torturate, due ragazze la cui unica colpa è stata quella di fidarsi e lasciarsi affascinare da giovani rampolli della borghesia romana.

Il film ricostruisce il fatto che si dipana con la voce narrante del protagonista, Edoardo Albinati. Tutti i personaggi della vicenda hanno i nomi veri, ricostruiti con il realismo vero di chi è parte della narrazione. Al film va il merito di aver raccolto un gruppo di giovani interpreti la cui performance raggiunge livelli lodevoli, un gruppo che ha reso credibile i personaggi per una prova attoriale da applauso. Ma il film è popolato da un esercito di figure più o meno importanti la cui partecipazione rasenta per alcuni il cameo, mentre altri prendono un protagonismo essenziale per lo sviluppo della vicenda.

La scuola cattolica
La scuola cattolica

La scuola cattolica

(Claudio Iannone)

L’intreccio è organizzato con un alternarsi di rimandi temporali in sette sequenze narrative, contenuti dal ritrovamento di una Fiat 127 bianca. Intreccio che dà dinamicità a una vicenda la cui fine è nota. La fotografia ci propone immagini notturne, scure, e danno poco spazio alla luce naturale; anche le scene del mare non fanno eccezione con una luce velata o limitata dagli alberi o dalla vetrata della veranda. Roma è quasi sempre ingrigita, così come le immagini della passeggiata nel bosco adombrate dalla folta vegetazione.

I take di passaggio temporale della scuola risultano ripetuti quasi a universalizzare un ambiente di cui si mostra l’inquadratura dell’ingresso, del corridoio della presidenza, del cortile con la chiesa in fondo, o visto dall’alto con lo stesso passaggio di un sacerdote che accompagna lo stesso gruppo di studenti, indice dell’invariata ripetitività del quotidiano scolastico. Si prediligono immagini strette, a volte sbilenche o sfuocate, indizio di stati d’animo carichi del male rappresentato da alcuni personaggi la cui psicologia rasenta il caso, o la tensione delle relazioni sempre prossime alla aggressività, o la paura delle vittime, o la noia della vita da riempire con azioni adrenaliniche e violente. “Quella storia riguardava tutti noi: la nostra educazione, il nostro quartiere, la nostra scuola. Dopo, niente sarebbe stato più come prima”.

Ma il difetto sta nella differenza del particolare, certamente dettagliato nel voluminoso romanzo di Albinati, ma non nella sua sintesi, con tocchi oleografici e difettosi per il tempo in cui doveva essere costretta la versione cinematografica. Senza togliere valore al lavoro del regista, manca forse la mano di un autore che riesca a “sistemare” una narrazione straboccante, aiutando a cogliere meglio la psicologia della miriade di personaggi, troppi, che partecipano al racconto, o il clima di atmosfere spesso rimaste in sospeso.

Manca lo sviluppo descrittivo di quelle figure importanti chiamate in causa dal film, come il preside, i professori, i preti, le famiglie, di cui si hanno pennellate che dipingono un quadro confuso, senza approfondimenti psicologici, né tantomeno etici. In particolare, i genitori, fatti fuori con un “assenti” per i padri o un “annichilite” per le madri, avrebbero potuto consegnare l’humus infetto in cui crescevano – educere - questi rampolli della “società bene” romana la cui tenerezza era frustrata, attratti dal male e dalla aggressività che poteva sfociare nel neofascismo. L’indagine che riduce alla sola scuola cattolica la generazione del malessere giovanile è non solo riduttiva, ma tendenziosa.

La scuola cattolica
La scuola cattolica

La scuola cattolica

(Claudio Iannone)

Si parla di famiglie esteriormente solide, ma più fragili di quanto appare, e se ne parla con una marginalità sorprendente, al punto che delle famiglie chiamate in causa si offrono solo poche sfumature stereotipate. Ne vengono evocate sei, ma all’appello manca quella del protagonista a cui non si fa il benché minimo richiamo per capire l’animo stesso del personaggio. Famiglie come gusci protettivi che affidavano i loro figli all’altro guscio protettivo che è la scuola, in cui le regole delle une e dell’altra riempivano la vita: “I tre pilastri educativi erano: persuasione, minaccia e punizione. Ma più che pilastri erano fasi”.

La chiave per comprendere il film sta nell’episodio del ritiro guidato da fratel Curzio e dal professore Golgota. Davanti alla Flagellazione del Cristo di Ludovico Carracci, dopo aver descritto insieme agli studenti il contenuto dell’opera, il professore dichiara la sua teoria secondo cui “per diventare uomini è necessario passare per il male”.

A rispondere è forse l’unica figura sana del film, Gioacchino, le cui convinzioni gli provengono da quella famiglia descritta come bigotta perché credente: io sono convinto che si diventa umani commettendo il bene e, a quanto pare, lei sta dicendo che si diventa uomini solo commettendo il male. Senza bellezza né bontà, l’umanità è destinata alla deriva e la corruzione dell’idea hegeliana di uomo non può che portare alla disumanità degli estremismi. “Quindi il professore Golgota stamattina sta delirando?... Si può essere indulgenti con il male?”. Si può rispondere al male con misericordia sincera?

Resta la memorabile immagine di Donatella, i piedi nudi che toccano il suolo fuori dal sepolcro della 127 bianca: il suo volto, come di un Cristo flagellato, avvolto da una sindone sudicia, si manifesta in tutta la sua espressione di dolore e di sollievo come resurrezione da un’umanità malata.