“Che ci prepara di bello? Un altro film senza speranza?”. È una delle prime espressioni di una pellicola che si apre con l’incubo del protagonista il quale ha smarrito ispirazione e creatività. Perdita che si ripercuote sul progetto che sta realizzando e che non ha “speranza” o possibili vie di uscita. Pressato dalla produzione, assillato da ricordi vividi che popolano i suoi pensieri e alimentano i suoi desideri, “visitato” dai genitori defunti, perseguitato da una coscienza che gli presenta i conti in sospeso di un passato da cui trarre suggestioni e di un presente esigente che gli produce malessere e nausea, Guido Anselmi è in l’alter ego di Federico Fellini.

Il titolo nasce da una stranezza che indica la nebulosa di aspirazioni di un creativo in crisi, il disorientamento di un artista prigioniero del caos da riordinare solo con l’autenticità dell’amore. Il film è popolato da una miriade di personaggi e comparse, in cui le donne ricoprono tutte insieme un ruolo di protagoniste riconducibili a cinque figure speciali: la madre-dovere, la moglie-fedeltà, l’amante- tresca, la cognata-coscienza, la giovane-desiderio di purezza.

è l’harem di Re Salomone in cui appaiono donne “reali”, che hanno condiviso porzioni più o meno considerevoli dell’esistenza di Guido, o proiezioni di impulsi e bramosie di un uomo sentimentalmente immaturo (la Saraghina o i preti-donne, riverbero di inibizioni affettive e sintomo palese della delusione materna). Una rappresentazione del sé felliniano, una sorta di “Federico degli spiriti”, anticipazione dello speculare “Giulietta”, con i complessi e i sensi di colpa irrisolti.

Marcello Mastroianni in 8½
Marcello Mastroianni in 8½

Marcello Mastroianni in 8½

(Gideon Bachmann/Cinemazero)

Il film sembra nascere da intuizioni estemporanee, ma di fatto è frutto della collaborazione di sceneggiatori come Ennio Flaiano, Tullio Pinelli e Brunello Rondi. Dialoghi dirompenti, profondi, a volte sospesi e interrotti per dare spazio alla molteplicità di voci che nutrono lo stato d’animo confuso del protagonista, che aprono a riflessioni sulla vita e le sue stagioni come compimento di una parabola in bilico tra il caos e l’amore, elemento quest’ultimo che dà ordine al tutto.

In tal senso, il carosello finale sulle note evocative di Nino Rota a commento dell’espressione “È una festa la vita, viviamola insieme”, dà senso al caos improduttivo; così come la speranza irrisolta della cinematografia post Dolce vita che risiede, e si rivela, nelle figure femminili da cui l’intera opera felliniana è caratterizzata. Bisogna mettere ordine ai sentimenti accettare tutto e tutti amorevolmente con rispetto, riconoscendone il valore. Di voglio sottolineare due aspetti rimandando, per l’approfondimento, alla marea di critiche e recensioni che ha originato.

La prima, il legame con La dolce vita i cui richiami ritornano nel confronto con gli uomini di Chiesa. Quel film aveva suscitato le asperrime reazioni dei cattolici. Nomi altisonanti scesero in campo attraverso le pagine di rinomate testate con giudizi sommari che ebbero l’effetto di dare più forza al film e di allontanare il regista dalla fede. I film della precedente Trilogia della grazia attestavano intenzioni ben diverse da una critica gratuita alla Chiesa. Gesuiti come Angelo Arpa, Nazzareno Taddei e Virgilio Fantuzzi vi riscontrarono sì una critica, ma alla crisi morale che stava interessando la società italiana. Fellini ne uscì decisamente ferito, deluso, perché travisato nelle intenzioni e i preti suoi sostenitori subirono destini di diversa natura.

La reazione fu caustica: innanzitutto l’episodio de Le tentazioni del dottor Antonio in Boccaccio ’70, poi Toby Dammit di Tre passi dal delirio in cui si denuncia la pervasività bigotta del moralismo cattolico. In si intravedono alcuni richiami a quella esperienza. L’ossuto “cardinale”, messo a nudo nella sauna termale, e i suoi collaboratori, ne sono l’espressione più evidente: “Il mio protagonista ha avuto un’educazione Cattolica”, dichiara Guido al segretario del cardinale. “Educazione che gli crea certi complessi, certe esigenze non più sopprimibili. Un principe della chiesa gli appare come il depositario di una verità che non riesce più ad accettare, benché lo affascina. E allora cerca un contatto… una folgorazione”.

Federico Fellini e Marcello Mastroianni sul set di 8½
Federico Fellini e Marcello Mastroianni sul set di 8½

Federico Fellini e Marcello Mastroianni sul set di 8½

(Gideon Bachmann/Cinemazero)

La risposta che riceve è indicativa di un pensiero, espressione del tempo che non considera però i “segni dei tempi”: “Il Cinematografo, mi pare, non si presta tanto a certi argomenti. Voi mescolate con troppa disinvoltura l’amor sacro e l'amor profano, non è così?... Avete una grave responsabilità. Potete educare o corrompere milioni di anime”. Più definitiva la risposta del cardinale: “Chi non è nella Civitas Dei appartiene alla Civitas diaboli”, massima che non lascia spazio all’azione della grazia e della misericordia divina.

L’epoca del film è quella in cui l’Italia cattolica accarezzava l’idea marxista; le due parti interessate erano impegnate in un conflitto di formazione ideologica anche attraverso i cineforum, ma soprattutto schierando i rispettivi intellettuali per difendere e colpire come in un incontro di scherma. E qui la seconda sottolineatura. Guido/Federico non si schiera, ma riconosce l’ingerenza dei critici delle due parti. “Lei parte con l’ambizione di denuncia”, gli osserva l’intellettuale di sinistra, “e arriva al favoreggiamento di un complice”. E più in là afferma: “Noi critici facciamo quello che possiamo. La nostra vera missione è spazzare via le migliaia di aborti che ogni giorno oscenamente tentano di venire al mondo”.

Ora è un film sulla creatività artistica e sulla libertà creativa dell’artista; una lezione sulla dannosità della critica gratuita, spesso inchiodata dal pregiudizio ideologico che ha tentato di sotterrare spiriti liberi, critici di una società non sempre all’altezza delle proprie responsabilità morali e che ha tentato di ridurre al silenzio le voci più scomode ed esigenti. Pasolini e Visconti docent. E allora perché non accettare ragionevolmente il confronto specie quando al centro c’è la persona con i suoi drammi e le sue speranze?