Sembra il countdown della discesa agli inferi di Otilia e Gabita, due giovani compagne di stanza alla Casa dello Studente, e non quello che effettivamente è: il tempo della gravidanza della seconda. L’azione si svolge in un lasso di ore che non fanno neanche un giorno completo in coerenza con le unità aristoteliche di luogo e di tempo. La tragedia è servita come il piatto di “carne e interiora”, rimasuglio del banchetto dell’anonimo matrimonio che si celebra, tra pasto, liti e balli riparatori, nello squallore di un hotel.

Il contesto è la Bucarest di Ceausescu di cui però non appaiono i segni se non nell’unico campo lungo di un quartiere della città e in passeggere metonimie del controllo svogliato di bigliettai, receptionisti, poliziotti e barellieri. Nonostante il contesto, si tratta di un racconto universale ambientabile ovunque. Il testo filmico si compone di sette sequenze, tutte girate in long take dalla lunghezza variabile, con camera a spalla che precede o segue la protagonista “più dinamica”, Otilia; in totali strettissimi, quasi claustrofobici, dove si svolge la storia quasi sempre a narrazione debole con i dialoghi prevalenti sull’azione; e in primi piani lunghi e fermi a mettere in risalto lo stato d’animo carico di emozioni e dolore.

4 mesi, 3 settimane, 2 giorni
4 mesi, 3 settimane, 2 giorni

4 mesi, 3 settimane, 2 giorni

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Le prime quattro sequenze sono di contesto e ambientazione: introducono i protagonisti nel loro ambiente fisico e relazionale. La Casa dello Studente con la camera occupata da Otilia e Gabita (la vaschetta con i due pesci rossi indicativa del loro destino), il corridoio budello che consente le interazioni con amici e colleghi e che porta alle docce, nei bagni in comune e nelle camere “mercato nero” degli altri studenti. L’università dove Adi è in attesa di un esame e l’invito al compleanno della madre. I due hotel, il primo con la riserva non accettata e il secondo dove Otilia ottiene una camera matrimoniale. L’incontro con Bebe e i rimproveri dell’uomo alla madre. L’umiliazione subita nella Camera 206. La cena di compleanno a casa di Adi. E infine il rientro all’hotel, con il banchetto matrimoniale che resta ai margini (ma che dà senso a quanto vissuto a casa di Adi con gli amici di famiglia), l’espulsione del feto, il disfacimento e la cena silenziosa.

4 settimane, 3 settimane, 2 giorni è un film sgradevole e sconvolgente, ma che suscita pietà e chiede compassione nonostante la crudezza. Ancora una volta va in scena il fattore umano in una rappresentazione antropica terribile. Lo spettatore è invitato a prendere posto e a sopportare l’insopportabile (per l’intensità) misto alla profonda insofferenza che scaturisce dalla vicenda. Ma il fastidio non è per la messa in scena, per la storia in se stessa. È generato dall’inaccettabile malignità che la creatività umana sa concepire. Malvagità difficile da “abortire”, nonostante il film ci racconti di un aborto clandestino che si consuma nella sordidezza di un ambiente opprimente, fosco, e nella turpitudine d’animo di un “mammano” meschino e ipocrita che ha la sfrontatezza di sollecitare il senso di colpa delle ragazze per abusare di entrambe.

L’incredulità di quello che sta per succedere non si manifesta solo nelle due vittime che subiscono l’umiliazione della violenza sessuale, ma nello spettatore, consapevole di non poter intervenire per interrompere le intenzioni dello spregevole profittatore. L’ansia che si produce è acuta come la suspence degna di Hitchcock. Nei film del maestro però a produrla erano le immagini e il montaggio; qui invece determinanti sono i dialoghi contenuti nelle lunghe inquadrature di piani stretti e fissi.

Nella camera 206 si realizza un rituale tragico in una successione di azioni umilianti e reazioni desolanti: il rimprovero, l’imbroglio, l’abuso, l’umiliazione, l’aborto, l’incredulità, la pulizia intima e convulsa per lavare la violenza subita, il chiarimento straziato delle due amiche. Il dramma si consuma e Mungiu lo fissa sul profilo in primo piano di Otilia, sacrificatasi per l’amica, e sulle risposte in voce-off di Gabita, come ne I 400 colpi di Truffaut. Il film non ha bisogno di musica, si serve dei rumori della vita. Restano solo alla fine le canzoni della festa di un matrimonio finito in lite. Il film propone tre temi seri e delicati: l’aborto, il matrimonio, la dignità femminile in cerca di emancipazione.

4 mesi, 3 settimane, 2 giorni
4 mesi, 3 settimane, 2 giorni

4 mesi, 3 settimane, 2 giorni

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Mungiu chiede allo spettatore di stare vicino alle protagoniste, di accettarle come sono, di considerare consapevolmente il dolore che sopportano in una società che le priva della loro personalità e dignità, della capacità di decidere per se stesse responsabilmente. La cena di compleanno è sintomatica di una borghesia intellettuale ottusa e snob, assuefatta e svuotata di valori e di valore, e lo si evince dalla banalità dei molteplici temi affrontati durante la cena. Geniale la scelta di escludere i benpensanti dalla vista con un piano sequenza immobile ristretto ai due protagonisti e ai genitori di lui: la mediocrità deve restare fuori campo. Lo spazio sembra quello consacrato a una recita, dove ancora una volta va in scena l’umana miseria, la vita nella sua crudezza e piattezza.

Il ritorno dagli inferi sta nella disposizione compassionevole di Otilia verso la fragile amica, e nello sguardo che osserva la meschinità umana e sociale per poi coinvolgere, con gli occhi rivolti alla cinepresa, ogni singolo spettatore. Questi non può distanziarsi da un presente filmico in cui viene interpellato: tu che ne pensi? È uno sguardo che non chiede misericordia, che non vuole compassione. È uno sguardo sull’umanità corrotta dal male che non si lascia riscattare, rimanendo assuefatta e allo stesso tempo narcotizzata di fronte al dolore e alla miseria umana. In fondo, Otilia ha vinto con la forza del suo carattere le umiliazioni a cui è stata sottoposta. Il suo è un invito a non giudicare seguendo logiche perbeniste.