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Clint Eastwood in Impiccalo più in alto
“Corpo erotico di fronte alla cinepresa, occhio spietato dietro di essa, Clint Eastwood non ha mai avuto l’ossessione del tempo che passa (prova ne sia la lievità con cui da sempre esibisce le proprie rughe senza per questo indebolire il suo sex appeal), ma solo quella «magnifica» di raccontare storie. Le storie di un’America che, proprio come il suo corpo, si è trasformata nel corso degli anni senza mai nascondersi e nascondere le sue contraddizioni, continuando nel tempo a scorticarsi viva e a rigenerarsi come una sorta di araba fenice. Processo doloroso e continuo di rinascita che l’ha resa unica, affascinante, ma che non le fa recuperare l’innocenza perduta. Le storie di Eastwood la ritraggono senza mai indorare la pillola di questa amara verità”.
Per quanto le precedenti righe (provenienti dal saggio di Anna Camaiti Hostert Il paria senza paura tra passato e futuro) siano nella parte finale del libro in questione, è difficile trovare una definizione più calzante per inquadrare l’ultimo appassionante lavoro di Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri: Spettri di Clint. L’America del mito nell’opera di Eastwood (Baldini+Castoldi, pagg 448, € 22,00).
Ma perché “spettri”? Perché se la settima arte stessa trasforma attori e attrici in fantasmi perennemente sospesi tra questo mondo e il passato (o l’aldilà), la filmografia eastwoodiana è fatta di revenant, di stranieri senza nome, di personaggi in bilico fra luce e ombra, di “morti” che camminano e di storie da salvare dall’oblio, nell’amara consapevolezza che la fine è prossima e che si può solo sperare di utilizzare al meglio il tempo concesso da un destino inarrestabile.
Come sottolinea nella prefazione Alessandro Cappabianca, “il cinema di Clint Eastwood registra malinconia e bellezza della vecchiaia. Non solo mostra, nella vecchiaia stessa, la pulsazione della vita, ma la modifica, la accelera, la rallenta, la trasforma. Il suo cinema può benissimo continuare a raccontare, ma nell’atto di raccontare lascia cogliere il lavoro del tempo sui corpi e sulle cose. La morte al lavoro, certo, ma anche la vita. La vita al lavoro, perfino dopo la morte”.
Per orientarsi in una produzione decisamente ampia (71 film interpretati, 53 prodotti e 45 diretti, che con il nuovo Juror #2 diverranno 46), Ciotta e Silvestri scelgono di optare per una scelta assai originale, ovvero costruire una mappa simbolica che ricalca quella della proprietà di Eastwood: il Mission Ranch a Carmel-by-the-Sea, cittadina californiana (di cui l’attore, regista e produttore è stato sindaco) dove “sono proibiti i semafori e le insegne al neon, ma non le librerie, i concerti di musica classica e jazz, le gallerie d’arte e le mostre fotografiche. La nebbia che arriva d’improvviso, come in Fog di Carpenter, la trasforma in una città fantasma. Atmosfera ideale per lo spettro Clint”.
Dalle dieci aree del Mission Ranch si dipanano altrettanti ambiti della filmografia eastwoodiana: Western (dagli esordi attoriali al funereo Gli spietati, 1992), Commedia (“Mi piace ridere… E mi piace anche vedere la gente che ride”, Clint dixit), Dirty Harry (focus sulla figura del detective solitario, che va dalla saga dell’ispettore Callahan al Terry McCaleb di Debito di sangue, 2002), L’età dell’innocenza (o meglio, la sua perdita, passaggio a cui sono destinati tutti i giovanissimi, in un ventaglio che va dallo stilema del coming of age a tragedie quali Mystic River, 2003), Reclute (il rapporto fra mentore e allievo… o allieva, se si pensa a Million Dollar Baby, 2004), Honeymoon (ossia il “romanticismo” secondo Clint) e Malpaso (il nome della casa di produzione fondata nel 1967 per avere piena libertà creativa sulle proprie pellicole), più tre ambiti a cui Eastwood è estremamente sensibile (Arte, Storia e Musica).
Come sottolineano gli autori del volume “nessuno gli è pari, considerando la caleidoscopica diversità di atmosfera, tono e fraseggio del cinema eastwoodiano” e “la sua variopinta serialità, la strategia delle variazioni all’interno di ossessioni narrative costanti”. Doti che hanno permesso a Clint di mettere in crisi l’idea stessa di mascolinità americana e di essere il cantore di antieroi cinici e disincantati, che spesso, però, si rivelano gli unici disposti a difendere la giustizia sociale e persone con cui magari non condividono nulla, se non la ferma convinzione che i diritti dei più deboli vanno tutelati.
Difatti, nel mirino di Eastwood/Callahan (per noi italiani, Callaghan) non ci sono gli innocenti, bensì “il caos selvaggio della società dei forti, la naturale sopraffazione scritta nei codici delle autorità” perché, citando gli autori “Clint era dalla nostra parte molto tempo prima della riabilitazione critica del terzo millennio – al di là delle contraddittorie dichiarazioni politiche – dalla parte del bambino Cherokee discriminato, della donna aggredita e indocile, del ragazzino sudafricano di Mandela, del teenager hmong e di quello messicano, contro le grandi compagnie minerarie, gli sceriffi razzisti, i presidenti degli Stati Uniti corrotti e assassini, la condanna a morte, la guerra, i suprematisti bianchi”. Tutto questo con buona pace di chi, considerandosi acuto pensatore e paladino delle libertà, si ostina a dare del retrogrado a un autore che incarna, invece, l’ultimo rivoluzionario etico.