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C’è insieme il legittimo sospetto, di un’altra dimensione (e no, non c’entrano i “quanti”, ma i perché), e il legittimo impedimento, rispetto al nerd tecnicista passato in giudicato, che Christopher Nolan con Oppenheimer ecceda non solo il visibile, ma il profano.
Che insomma, per dirla con il sommo René Girard, anche nel suo caso “la tendenza a cancellare il sacro, a eliminarlo interamente, (abbia) prepara(to) il ritorno surrettizio del sacro, in forma non più trascendente bensì immanente, nella forma della violenza e del sapere della violenza”.
La forma dell’atomica, il sapere degli scienziati, J. Robert Oppenheimer in testa, l’immanenza dell’Olocausto nucleare, dopo la Shoah. Che ci azzecca con il Nolan che (s)conosciamo? Girard, ancora, che per i tipi di Adelphi individua nell’escamotage scientista “una espulsione e consumazione rituale del religioso stesso, trattato come capro espiatorio di ogni pensiero umano”.
I capri espiatori, in Oppenheimer, sono frattali: capri ovunque, capri i due principali personaggi, Oppie (Cillian Murphy) in semi-soggettiva a colori e Lewis Strauss (Robert Downey Jr.), membro fondatore della Commissione per l’Energia Atomica degli Usa, in bianco e nero, entrambi beneficiati di un non giusto processo, meglio, di un non processo. Accadimento così vecchio testamentario.
È materia sacra, Oppenheimer, è olocausto della stirpe di Abramo e Isacco, con gli ebrei prevalenti, e predominanti, su entrambi gli scacchieri: al soldo dei nazisti, nel novero del Manhattan Project di Oppenheimer nel deserto di Los Alamos.
Idioti in mala fede hanno tacciato Nolan dell’elusione di Hiroshima e Nagasaki, senza (voler) intendere come il fuoricampo, oltre che diegetico rispetto a Oppie, sia vieppiù detonante: peraltro, fiamme, spostamenti, ottundimenti, calcinazioni in negativo e corpi carbonizzati entrano in campo, animando ovvero mortificando la soggettiva di Oppie. A ognuno l’estasi che si merita, a ciascuno il sacrificio che gli si richiede, qui elevato a potenza globale, ossia a olocausto della specie umana: la “terribile possibilità”, mai ridotta a zero matematicamente, che la bomba innescasse il rogo dell’atmosfera terrestre e dunque terminasse il pianeta.
Per salvare il mondo, leggi: per sconfiggere il Giappone, Oppie e sodali e l’America (quasi) tutta accettano il rischio calcolato e non cancellato, buttano la bomba oltre l’ostacolo teorico, trovando, preziosissimo Girard e preziosissimo sangue, il sacro, che altro non è che “ciò che domina l’uomo tanto più agevolmente quanto più l’uomo si crede capace di dominarlo”.
Il popolo eletto, coatto o cooptato, che scrutando i segreti della fissione prepara la bomba a fusione, Oppie, e Strauss, e prima Einstein e poi (quasi) tutti, che convergono parallelamente e inesorabilmente a capri espiatori, e ancora Oppie che è tutto sacro, che appella trinitariamente il test atomico Trinity, che prende dalla Bhagavadgītā e in quel sanscrito, in quel sacro si ritrova: "Now I Am Become Death, the Destroyer of Worlds”. Quanta violenza, e quanto sacro.
Se il mondo è in una stanza, che è dei bottoni e qui del bottone, se la deflagrazione può cancellarci dalla faccia della Terra, e dunque dalla Storia, Nolan assistito dal fedele direttore della fotografia Hoyte Van Hoytema prende in parola - Oppenheimer è verbale senza essere verboso - e per immagini l’evenienza e – non l’aveva già fatto Quentin Tarantino con The Hateful Eight? – filma un Kammerspiel in IMAX 65mm e pellicola 65mm, facendo della magnitudo e della magnificenza del formato la cartina al tornasole del dramma che si sta consumando, e detonando, tra quattro mura.
Il formato è la scala, alla voce apocalisse: e fin qui. Ma la forza, la forza qual è? La detonazione si accompagna a una denotazione, perché implosione ed esplosione, forza centripeta e forza centrifuga non competono solo all’ordigno, già kubrickianamente fine-di-mondo, ma alla comunità scientifica, e parabellica, di Oppie, dal generale Leslie Groves direttore del Progetto Manhattan (Matt Damon) a Ernest Lawrence (Josh Hartnett), dal fisico sperimentale David Hill (Rami Malek) al fisico teorico Edward Teller (Benny Safdie), dal fisico Isidor Rabi (David Krumholtz) a, laterale, Enrico Fermi (Danny Deferrari).
E, strabenedetto Girard, che succede a una comunità alle prese col pharmakon, con l’ambivalente medicina/veleno qui addirittura a base atomica? Succede che la violenza diventi necessaria, consustanziale, perfino salvifica: nei sacrifici – della specie umana, dei giapponesi, di Oppie, di Lewis - la violenza diventa sacra, perché serve a preservare la comunità, contenendo la diffusione della violenza stessa – e questo contenimento è quello per cui l’uomo sacro Oppie si prodigherà.
Seriamente, possiamo pensare che nella concomitanza, nella congruenza di creazione e distruzione sottesa alla bomba il sacro non sia interpellato, non trovi residenza filosofica e domicilio umano, e niccianamente troppo umano?
It's a Man's Man's Man's World, con le donne – la nemmeno troppo latente misoginia cui Nolan ci ha abituati – in ruoli ancillari, funzionali e financo minati: la psichiatra Jean Tatlock (Florence Pugh) è disturbata e la moglie Kitty Oppenheimer (Emily Blunt) alcolizzata, l’una passiva, l’altra imperativa, entrambe love interest di Oppie e poco o nulla più. Vittime collaterali di una sacerrima violenza che Nolan dispensa con la peculiare capacità affabulatoria per immagini e suoni, ma con un pressoché inedito moto interiore e accesso mitico: il libro di Kai Bird e Martin J. Sherwin su cui si poggia ha titolo ineffabile, American Prometheus: The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer.