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La zona di interesse
Sono entrambi candidati all’Oscar come miglior film internazionale ma le concordanze tra La zona di interesse di Jonathan Glazer (in Italia dal 22 febbraio con I Wonder) e Perfect Days di Wim Wenders (nelle sale italiane già da settimane con un ottimo riscontro di pubblico) sono più profonde, di sensibilità culturale e di linguaggio.
Proemio non richiesto: breve storia sociali delle immagini in movimento. Mentre il cinema allargava progressivamente il perimetro del mostrabile, sfidando tabù culturali e morali - due i momenti decisivi: l’uscita nella sale del primo porno mainstream della storia, Gola profonda di Gerard Damiano nel 1972; l’impatto sul pubblico e sul costume de L’esorcista di William Friedkin, uscito l’anno dopo - qualcosa di analogo accadeva alla soglia di sopportazione dello spettatore occidentale: passati i primi fastidiosi mal di pancia e svenimenti, lo sguardo si attrezzava disinnescando man mano gli shock sempre più violenti procurati dalla macchina di produzione dell’immaginario.
Social, iperrealtà e simulacro
Oggi il processo di sdoganamento dell’osceno produce continuamente nuove metastasi nel sistema panottico dei social media. Il campionario dell’orrore è variegato, non c’è limite all’efferatezza. Il paradosso è che le decapitazioni scorrono sui nostri device insieme a innocue scene di vita domestica, gag involontarie, candid camera fai da te. Alla fine, diventa tutto uguale. Un ronzìo ininterrotto, ontologicamente indeterminato, eticamente indifferente. Il valico della dignità e del pudore ampiamente superato dai meccanismi di de-realizzazione messi in atto del guardare: così, in definitiva, non ci sono uomini oltre il vetrino delle immagini. Ma figure. La realtà è ovunque schermata, viaggia su schermi e dagli schermi viene occultata. Che Baudrillard avesse dunque ragione? Il nostro è il tempo dell’iperrealtà e del simulacro?
Si potrebbe persino dire, con una formuletta facile facile, che il video ha vinto e il cinema ha perso. Sembra sconfitta cioè quella straordinaria utopia artistica di disvelamento del mondo e della vita che buona parte dei grandi cineasti del Novecento ha coltivato per un secolo. Ci resterebbero le immagini, nemmeno in cerca d’autore (quelli li conosciamo bene). Un’ansia riproduttiva della realtà come fatto esteriore. Estetizzazione, esibizionismo, vanagloria. Ogni cosa è nuda e convessa. Flagranza in alta definizione. Una trasparenza che è pornografia, contraffazione, messa in scena.
Sic stantibus rebus, il rimedio andrebbe cercato allora tra i pertugi dell’immaginario, in quelle zone d’ombra che covano sbrilluccichìo di misteri e splendore di rivelazioni occulte. E se fosse il lavoro della messa in scena, dell’artificio che sfoca, nasconde, sospende, a restituirci l’esperienza del vero? Il cinema contemporaneo, morto e risorto, smunto ed espanso, non più definibile come formato, addentellato tecnico, spazio di destinazione, sarebbe un a margine rispetto all’inarrestabile riproduzione del mondo. Un cinema ipovedente. Teso al di qua del filmato, verso il filmabile: desinenza che fa tutta la differenza.
È uno scarto su cui lavorano queste due opere straordinarie che il nuovo anno ci consegna a braccetto: La zona di interesse di Jonathan Glazer e Perfect Days di Wim Wenders. Splendida sintonia di sensibilità tra un progetto di autore e un maestro ritrovato. Due film speculari per come scorgono nell’appannamento e nell’allusione una possibile via del cinema per liberarsi e liberare la realtà ridotta a immagine.
Il primo, nel raccontare del placido trantràn di una famiglia di nazisti che vive di fronte ad Auschwitz, (il capofamiglia, Rudolf Höss, è direttore del campo di concentramento) si confronta con il tabù della Shoah a partire dallo status quaestionis del cinema: dunque non come tòpos storico-narrativo, ma tema di rappresentabilità, opportunità estetica e quadratura morale. Nel farlo rifugge tanto dalle ambiguità della spettacolarizzazione per immagini quanto dalla severa cesura iconoclasta di Lanzmann. Nel mettere l’Olocausto tra, né in campo né fuoricampo, Glazer ci mostra invece l’importanza del diaframma. Se la Shoah è il Male assoluto, quale immagine può dirla che sia contemporaneamente presente e assente, concreta e astratta?
L’immagine acusmatica della Shoah
Davanti all’osceno dell’Altissima Definizione – nel film la vita bucolica della famiglia di sterminatori, colta in piena luce; fuori, la pornografia della realtà riprodotta – Glazer non oppone semplicemente lo schermo nero (che fa capolino semmai come segno d’interpunzione) ma il “raccordo mancante”. I serpentoni di fumo che salgono al cielo devono alludere ma mai mostrare. Sono tracce, la cui origine non è né può mai essere visibile. Quando il significato eccede e l’oggetto del discorso è debordante, nessuna forma di rappresentazione può bastare. Il significante rinuncia ad essere totalitario per lasciare spazio a ciò che lo precede e lo supera. Il metodo si perfeziona poi con il lavoro sul suono: Glazer crea un’immagine acusmatica della Shoah ancora più disturbante e ambigua di quella consegnataci da László Nemes con Il figlio di Saul (2015). Latrare dei cani, urla, rumore di mitragliatrici. Da dove arriva tutto questo?
In Perfect Days Wim Wenders si trova davanti in teoria al problema opposto: che immagine ha il Bene? Qui l’intenzione di depotenziare l’ordine della rappresentazione si fa addirittura plastica: il protagonista, Hiramaya (Kôji Yakusho), non è né santo né eroe. Solo un umile addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo. Lavoro che svolge con cura meticolosa, come se fosse la cosa più importante al mondo. Prima e dopo, una serie di rituali sempre uguali. Sveglia all’alba, caffè caldo al distributore automatico, mani sul volante del furgoncino e via, vero la toilette assegnata. Gli fanno compagnia le musicassette rock degli anni Sessanta e Settanta – da Van Morrison a Lou Reed, dai The Animals a Patti Smith. Ancora il sonoro come chiave d’accesso. Anche se qui il procedimento è più da videoclip (mondo da quale proviene invero Glazer). Pausa pranzo sulla panchina di un parco (sempre lo stesso), che termina ogni volta con la fotografia agli alberi che lo circondano. Coazione a ripetere che Wenders non carica di significati anomici. Il nostro uomo sembra pacificato.
La banalità del Bene
Anche qui però conta non tanto quel che mostra ma ciò che non mostra. Se il film si limitasse ad elevare un invisibile al rango di protagonista la questione sarebbe puramente narrativa, al limite evangelica. Diventa cinematografica quando coglie nel non-visibile la chiave del visibile. Wenders illumina Hiramaya senza mai rivelarlo tutto. Chi è in effetti? Non sappiamo nulla di lui, dal suo passato affiora giusto una nipote che spunta all’improvviso, una sorella benestante. Il punto è che Perfect Days non è un film a soggetto. Ma a soggetti. Propone cioè un percorso di sguardi. Il diaframma utilizzato da Wenders è la frapposizione dei punti di vista: del collega e della sua fidanzata, della nipote, della sorella, della cuoca, dell’uomo malato di cancro. L’invisibile non è soltanto “il visto” ma visto altrimenti. In queste rifrazioni prospettiche che Wenders si guarda bene dal ricomporre in una trama ordinata, leggiamo quel “Ci sono tanti mondi dentro lo stesso mondo”, che lo stesso Hiramaya consegna alla nipote come lupus in fabula dell’operazione. Il prezzo della pace non è l’autoesilio dal mondo, semmai intuire di esserne parte. Il Bene che qui interessa non è nelle pratiche, nell’azione visibile, dunque ancorato a un sistema antropocentrico, ma è qualcosa che esiste da prima e che si realizza durante. È una luce che illumina d’improvviso un volto. La pienezza di uno sguardo quando riconosce nel mistero dell’altro il proprio.
Perfect Days è un film di riflessi e di primi piani come non se ne vedevano da tempo. Si esalta nelle possibilità della relazione, nell’evocazione del raccordo mancante. Persino tra uomini e bagni. Anche il film di Glazer si chiude sui bagni, tirati a lucido dagli inservienti dell’odierna Auschwitz, ma l’effetto è del tutto opposto: qui dalla relazione con il Fantasma si vuol lavare via lo sporco. La museificazione della memoria produce oblio. Di ambivalenza in ambivalenza. arriviamo a un finale che riecheggia l’Austerlitz di Sergei Loznitsa. Ma l’imponderabile affiora ancora, risale con i conati spaventosi che piegano in due l’impettito nazista Hoss, mentre si avvia - discende le scale: il movimento è escatologico? - verso nuovi indicibili incarichi. Nel rigurgito del carnefice si fa strada forse la voce della vittima? E se quel corpo, fin lì strumento del male, vibrasse d’improvviso dall’interno, scosso da un’ultima disperata rivolta dell’umano?