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C'eravamo tanto amati
Da una Cinquecento mezza scassata escono una donna dimessa e due uomini un po’ trasandati. Si avvicinano alla siepe che costeggia il vialetto di una villa e vedono un altro uomo, più aitante, che si sta per lanciare dal trampolino di una piscina da miliardario.
C’eravamo tanto amati inizia così. E inizia per tre volte. Non è una falsa partenza né un errore di montaggio ma una dichiarazione d’intenti: “Gianni finirà il tuffo alla fine di questa storia” ci avverte Nicola (Stefano Satta Flores), rivolgendosi direttamente a noi. Uno strappo, il quarto in pochi minuti, a definire la norma della frantumazione. Perché questa storia plurale, una “rapsodia generazionale” la definì Morando Morandini, che non vive di una sola angolazione ma di prospettive che si incrociano, si scontrano, si innestano.
Un incipit che finisce con altri due gesti di rottura: uno zoom, a sottolineare lo shock di chi sta al di là della siepe, i proletari che hanno appena fatto un presidio notturno per iscrivere i figli alle elementari (“Certo, l’istruzione è obbligatoria però la scuola non è un diritto” spiega Luciana ovvero Stefania Sandrelli, moglie di Antonio cioè Nino Manfredi); e un finto fermo-immagine di Gianni sospeso (il sorriso sconsolato di Vittorio Gassman), che immortala perché, per dirla con Roland Barthes, una foto è sempre la traccia di una morte.
Poi il film parte, un attentato in montagna che segna la fine del conflitto mondiale, una canzone partigiana che è un falso storico (Io ero Sandokan, scritta per l’occasione ma ormai classico da 25 aprile), i tre protagonisti che si alternano nella narrazione: “L’Italia fu liberata, la guerra finì, scoppiò il dopoguerra, la pace ci divise”. C’era ancora domani.
Tra i maestri della commedia all’italiana, Ettore Scola non era solo il più giovane e quello che, in un modo o nell’altro aveva lavorato con tutti. Era soprattutto il regista che più di tutti amava giocare col tempo e con lo spazio: i suoi lavori migliori stanno lì a dimostrarlo, da Una giornata particolare (un giorno, un set che si sviluppa in verticale) a La terrazza (che porta all’estremo la reiterazione e la moltiplicazione) fino a Ballando ballando e La famiglia (tanti decenni, un solo luogo).
Scola era un umanista interessato alla vita che si consuma nel tempo, ai problemi esistenziali perché quotidiani, capace di sondare in profondità le intermittenze del cuore, il tramonto degli ideali, l’incidenza del caso, le scelte fatali, la vecchiaia incipiente. Nel suo mondo, il cinema è una lente per comprendere la realtà, magari per farci pace.
C’eravamo tanto amati (dal primo verso di Come pioveva, hit di Armando Gill del 1918) doveva essere la storia di un professore di provincia talmente entusiasta di Ladri di biciclette (vano il tentativo di coinvolgere Adriano Celentano) da abbandonare lavoro e famiglia e andare a Roma per conoscere Vittorio De Sica, salvo poi meditare di ucciderlo perché “colluso” con il cinema di consumo.
Poi Scola e gli sceneggiatori Age e Scarpelli allargarono il campo, alzarono il tiro e cambiarono prospettiva: il cinema – con relativi progressi e mode – come parafrasi della realtà. E quindi il neorealismo per indicare lo scarto tra chi ritiene che i panni sporchi vadano lavati in famiglia e chi pensa che “cessi e stracci” debbano svelare “gli ipocriti valori della cultura borghese”.
E, più in là, per distinguere chi si attiene a quel che accade sullo schermo e chi crede che non possa esserci finzione senza vita (è il fulcro del conflitto tra Nicola e Mike Bongiorno a Lascia o raddoppia?). E poi l’aspirante critico che recita e mima a memoria La corazzata Potëmkin per sedurre l’aspirante attrice, La dolce vita per raccontare il boom economico e la golden age cinematografara, il “doppiaggio” romantico di Schiavo d’amore delegando confessioni e confidenze ai volti di Kim Novak e Laurence Harvey, L’anno scorso a Marienbad a evocare le rotture della Nouvelle vague, L’eclisse di Michelangelo Antonioni a stanare l’incomunicabilità.
Ma anche il teatro: le confessioni che replicano i soliloqui di Strano interludio. E la musica: l’orchestrina che suona un tipico pezzo nello stile jazz postbellico di Armando Trovajoli (compositore di fiducia di Scola) e fa da testimone all’amore clandestino tra Gianni e Luciana.
Sopra ogni cosa, è il patto di fiducia anagrafico a dare la sostanza del cinema e la sua magia: in questo lungo flashback che copre trent’anni, dove il bianco e nero si trasforma in colore grazie a un madonnaro (fotografia di Claudio Cirillo, montaggio di Raimondo Crociani), dobbiamo credere che i già cinquantenni Manfredi e Gassman possano essere i poco più che ventenni partigiani Antonio e Gianni (Satta Flores era più giovane) e che nel finale la nemmeno trentenne Sandrelli possa toccare almeno la mezz’età.
Commedia all’italiana in purezza e grande “spettacolo d’autore” di sinistra, tre miliardi e mezzo d’incasso e statuto di culto conquistato sul campo, C’eravamo tanto amati uscì il 21 dicembre 1974: mezzo secolo dopo resta un’irrinunciabile opera mondo, che si chiede ancora se sia meglio “essere onesti o felici”, convinta che “se semo stufati d’esse boni e generosi”, suggellata dall’amara certezza: “Credevamo di cambiare il mondo e invece è il mondo che ha cambiato noi”.
Una volta Pietro Citati ha detto che la società non esiste, che l’hanno inventata gli scrittori (la Commedia umana di Balzac ne è l’esempio). Ma qui la società esiste, non solo quella dei cinegiornali che si vedono nei primi minuti o della televisione come nuovo focolare: è schematica e manichea come tradizione locale, quelli in alto a banchettare con la porchetta e quelli in basso al Re della mezza porzione.
Il cibo è sempre una cartina di tornasole (pensiamo a Una vita difficile, antenato del film) e così la politica: tutta la maggioranza è incarnata dal fascista Romolo Catenacci marchese di Cazzuola, palazzinaro sgrammaticato e spregiudicato (“Chi vince la battaglia con la coscienza ha vinto la guerra dell’esistenza” sentenzia Aldo Fabrizi, già prete martire di Roma città aperta, in un casting geniale: “Tu non scappi e io nun moro!”) e dai notabili di paese che prima ghettizzano, poi riaccolgono, infine compatiscono il comunista Nicola (che ai compaesani non le manda a dire: “Nocera è inferiore perché ha dato i natali a individui ignoranti e reazionari come voi!”).
Il teorema è dichiarato: Antonio Cotichella, il personaggio più empatico, è idealista e pragmatico come il partitone impone; Gianni Perego è l’anima nera della sinistra, pronta al compromesso e a farsi macerare dai tormenti mentre rinnega il passato; Nicola Palumbo, è velleitario e settario, sogna una rivoluzione che mai farà (“L’intellettuale è più oltre!”). Luciana Zanon (ah, l’onomastica degli sceneggiatori di una volta) sarebbe l’Italia amata e contesa, ma è anche il cinema italiano stesso (non fosse altro che Sandrelli lo è per assioma): è la seconda possibilità di Adriana Astarelli di Io la conoscevo bene (il suicidio è una tentazione), un’altra “ragazza con la valigia” che sogna il grande schermo ma si ritrova maschera (“Non mi tange!”: ci sarebbe da scrivere a lungo sull’indimenticabile repertorio di battute).
E poi Elide Catenacci (Giovanna Ralli), la figlia “un po’ intruppoccella” che si lascia addomesticare dall’arrampicatore Gianni, marito colto, a colpi di Dumas e “idrocarburi” (sarebbero grassi e carboidrati, vietati per non prendere peso: “Come te sbaji!” commenta la madre, cioè la sora Lella), capendo infine che essendo l’amore non corrisposto meglio la morte che “sublima” (“Si vede che non hai letto il Siddharta” dice nella scena allo sfasciacarrozze, una delle vette del nostro cinema: “Sei tu che non sei importante, Gianni. Non lo sei per nessuno, neppure per te stesso. Lo eri solo per me”).
E poi c’è Roma che tutto tiene e sa: Piazza della Consolazione, Piazza di Spagna, San Giovanni, la Fontana di Trevi, Piazza del Popolo piena di macchine fino alla leggendaria Villa dell’Olgiata. Assurto nel corso degli anni a capolavoro mitologico e seminale la cui fama cresce sempre di più, C’eravamo tanto amati si muove meravigliosamente tra narrazione, Storia e metafora.
Ed è un capolavoro nostalgico fino a sfiorare il lamento, riflessivo senza retorica, spietato (“La nostra generazione ha fatto veramente schifo”), divertente (la famiglia Catenacci), struggente (il primo piano estremo di De Sica, a cui il film è dedicato; le memorabili fototessere con il pianto di Luciana), traumatico (gli amori impossibili, le amicizie infrante, le morti inattese).
Verso il finale, Gianni e Luciana si rivedono dopo venticinque anni, lui scopre che lei ha sposato Antonio, ci resta come uno scemo e le dice: “Per tutti questi anni non ho fatto altro che pensare a te”. E lei, ferocemente serena e in pace col mondo: “Ma io no!”. Quanto a noi, a questo film penseremo per altri cinquant’anni, forse per sempre.