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Maria by Callas © LUCKY RED
“Perfetta, eppure oltre la musica. Sarebbe un oltraggio definirla miseramente una “grande cantante”. Era, ed è, l’arte”. Forse solo un irregolare come Carmelo Bene poteva inquadrare in modo così efficace Maria Callas, colei che ha rivoluzionato il teatro musicale con la sua genialità espressiva e recitativa, ristabilendo il primato dell’attrice sulla cantante, piegando l’esecuzione musicale alle esigenze drammaturgiche del personaggio e votando il proprio eccezionale virtuosismo allo scavo psicologico dei diversi ruoli. Proprio per la sua capacità di superare i preconcetti e di abbracciare quasi ogni tipo di arte, quello della Divina è un mito che travalica i confini della lirica e che sta impegnando da mesi tutto il mondo dello spettacolo allo scopo di celebrarne ovunque il centenario.
Difatti è trascorso ormai un secolo da quando, il 2 dicembre 1923, presso il Flower Hospital di New York, venne al mondo Maria Anna Cecilia Sofia (figlia di genitori d’origine greca, Georgios Kalogeropoulos ed Evangelia Dimitriadou), il cui cognome fu prima abbreviato in Kalos e poi modificato in Callas. Oltre al mondo dell’opera, a renderle tributo in prima fila c’è quello del cinema, che già scalpita in attesa di Maria, l’annunciato terzo biopic femminile di Pablo Larraín (dopo Jackie, 2016 e Spencer, 2021) con protagonista Angelina Jolie.
Nel frattempo, la 18a Festa del Cinema di Roma ha appena dedicato alla Callas un’apposita sezione tematica, composta dal restauro di Medea di Pier Paolo Pasolini (1969, pellicola che purtroppo rappresenta l’unica prova attoriale della Divina davanti alla macchina da presa) e da due documentari di Tom Volf, già autore di Maria By Callas (2017). Il primo, Maria Callas: Lettere e Memorie – Monica Racconta Maria, segue il tour dell’omonimo spettacolo teatrale interpretato da Monica Bellucci e diretto dallo stesso Volf, mentre il secondo, Callas, Parigi, 1958 (nelle sale italiane dal 5 all’8 novembre, grazie a Nexo Digital), permette di partecipare a un concerto leggendario: il debutto della Divina all’Opéra Garnier, avvenuto il 19 dicembre 1958 e oggi restituito al pubblico attraverso un doppio restauro (visivo e sonoro) in 4K Ultra HD a colori.
Vedendo simili testimonianze, che immortalano Maria all’apice della gloria, sarebbe ipocrita tralasciare l’influenza esercitata sui media dall’aspetto stesso della Callas, che (complici un percorso di dimagrimento tanto radicale quanto drastico e la preziosa consulenza della stilista Elvira Leonardi Bouyeure, in arte Biki) in pochi anni seppe trasformarsi letteralmente da brutto anatroccolo in elegantissima regina dei cigni, avviando quella che Pier Maria Paoletti ha definito “la stagione del divismo più spietato, delle intemperanze, dei sospetti, dei colpi di testa, delle dichiarazioni altezzose, della tirannia da primadonna, fomentatrice di scandali, dispensatrice di gioie sovrumane per i melomani, ogni spettacolo una battaglia duramente combattuta e una vittoria memorabile”.
Tuttavia, concentrarsi solo sull’immagine della Divina rischia di farne passare in secondo piano un aspetto fondamentale, ovvero il fatto che, prima di tutto, la Callas è stata (e ancora rimane) un’interprete dalla vocalità unica, governata da una tecnica ferrea, plasmata da una capacità di sacrificio inaudita e continuamente affinata da un’autocritica spietata. Era consapevole di avere un timbro anticonvenzionale, ma come affermava lei stessa, “Non basta avere una bella voce. Cosa significa? Quando si interpreta un ruolo, è necessario avere mille colori per rappresentare la felicità, la gioia, il dolore, la rabbia, la paura. Come puoi farlo solo con una bella voce?”. Persino Stendhal sosteneva che “non è certo una voce perfettamente pura, argentina, impeccabilmente intonata in ogni nota della sua estensione che può raggiungere i migliori risultati di canto appassionato.
Una voce totalmente incapace di variazioni non potrà mai produrre quel timbro opaco, o soffocato, che risulta subito così commovente e naturale nel ritrarre certi istanti di emozione violenta, o di angoscia appassionata”. Non stupisce quindi che sia stata proprio la Callas a far riscoprire al grande pubblico quel repertorio italiano di prima metà Ottocento che aveva ammaliato Stendhal, contribuendo in modo cruciale alla cosiddetta “Belcanto Renaissance”. Per lei, che sapeva suscitare “allucinazioni sontuose” (cit. Italo Moscati) e passare dal romanticismo di Bellini, Donizetti e Verdi al verismo di Puccini e Giordano, coniugando potenza, estensione e coloratura, fu persino coniato un nuovo termine, “soprano drammatico di agilità”.
In quella che potrebbe apparire una contraddizione (forza e leggerezza) sta anche la chiave per accedere al “personaggio” Callas: da un lato la perfezionista implacabile che si mostra arrogante per nascondere la propria insicurezza, dall’altro la donna (sopravvissuta a fin troppe umiliazioni) orgogliosa, vulnerabile e affamata di quell’amore assoluto che sembra condannata a ricevere solo sul palco. Ed è proprio dopo aver perso il pieno controllo della propria voce e alcuni degli uomini che hanno indelebilmente segnato la sua vita (il padre, i pigmalioni Tullio Serafin e Luchino Visconti, l’amico Pasolini e il fedifrago ex compagno Aristotele Onassis) che la Divina si spegne a Parigi, sola, il 16 settembre 1977. Le ceneri mortali del “soprano supremo” vengono disperse nel Mar Egeo, ma la sua arte rimane più viva e fulgente che mai.
Basti pensare che, oltre agli innumerevoli dischi e studi accademici che ne celebrano la carriera, sono circa un centinaio i film e le serie tv (spesso insospettabili) che si avvalgono di performance callassiane, sia come elemento simbolico, sia come autentico snodo drammaturgico. E nell’ascoltarla non si può non concordare con Franco Zeffirelli, che ha lavorato con lei a teatro, l’ha omaggiata in Callas Forever, 2002 e che la considerava “un regalo di Dio che non si può definire nel tempo: Maria c’è sempre stata e ci sarà per sempre”.