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Bones and All (cr. Yannis Drakoulidis)
Qualcuno diceva che l’amore ha l’amore come solo argomento. E Luca Guadagnino ci crede.
Tutto il suo cinema si edifica su questa certezza. Dopo vent’anni e più di carriera, siamo convinti che, oggi, pochi come lui sappiano raccontare l’amore. Anche quando si tratta di scandagliarne la perversione (non ci spingeremo a proporne una rivalutazione, ma suggeriamo di tornare senza pregiudizi al pur irrisolto Melissa P.), non si sottrae alle conseguenze dell’amore, alla sua necessità di passarci attraverso per imparare le regole dell’attrazione, misurare la vita secondo i battiti dei nostri cuori, lasciarsi ferire dalla straziante necessità del dolore.
La sua grandezza, tra l’altro, sta nella rara capacità di farsi contemporaneo svincolandosi dalle contingenze temporali. Quanto presente c’era nel presente decomposto e decadente del viscontiano Io sono l’amore o in quello inabissato nella geometrica jam session A Bigger Splash? E, di riflesso, il passato di Chiamami col tuo nome (il coming of age romantico più importante degli anni Zero è una fuga nostalgica in un’idealizzazione degli anni Ottanta) o Suspiria (la tesi di laurea su un’ossessione filmica che si proietta in una danza macabra) era davvero passato?
Più che un’astrazione, per lui il tempo è uno spazio aperto dove la cronologia è un sintomo che esplode nel repertorio iconografico e audiovisivo. Come ha dimostrato nella magnifica serie We Are Who We Are, Guadagnino parla di – e a – una generazione, la Z. I post-millennials lo considerano un narratore capace di intercettarne stupori e tormenti, irrequietudini e curiosità, paura e desiderio, e gli riconoscono sensibilità espressiva, esuberanza creativa, aderenza sentimentale.
Eppure Guadagnino parla sempre di se stesso, della sua innocenza perduta, della sua scoperta del mondo, del suo immaginario segnato da Rohmer e Moroder, Bertolucci e Bertè, Pialat e Sakamoto, Ivory e Dylan. In questo senso Bones and All è davvero la quadratura di un cerchio, il trionfo di una visione personale che digerisce le lezioni dei maestri evitando onanismi e solipsismi cinefili. Mai come qui Guadagnino sa emanciparsi dalla predisposizione alla teoria per lanciarsi in un racconto maturo, compatto, preciso, addirittura classico.
Sarà perché, sin dal titolo, il suo discorso amoroso si concentra su una dimensione tattile e concreta – sta per “fino all’osso” – che comunque appartiene a tutta la sua opera (il cibo in Io sono l’amore, la pesca di Chiamami col tuo nome, la pelle in Suspiria). E sarà anche perché nel solco di Bertolucci sa fare dell’amore atto politico, e viceversa. Si capisce subito dalle prime immagini che Bones and All non lascia scampo: è una catabasi, eppure decide di essere anche la storia del primo amore. Quello che sboccia tra Maren (la folgorante Taylor Russell, Premio Mastroianni a Venezia 79) e Lee (Timothée Chalamet, meraviglioso), due adolescenti in fuga: lei, abbandonata dalla madre, non può più contare sulla protezione del padre; lui, lontano da casa per un senso di colpa che non va via, si arrangia.
Diseredati, emarginati in una società ostile, si riconoscono all’istante: sono entrambi cannibali e non riescono a frequentare le persone “normali” per il terrore di lasciarsi sopraffare dall’istinto della fame. Insieme si salvano, rubano un pick up e, sulle rotte periferiche del Midwest arido e inaridito degli anni Ottanta reaganiani, provano a sopravvivere senza lasciarsi scarnificare. Dagli altri, da loro stessi.
Potrebbe essere il Twilight del cinema d’autore, Bones and All, che non è solo l’adattamento di un libro young adult (il bestseller di Camille DeAngelis, sceneggiato da David Kajganich) come l’avrebbe diretto un giovane europeo degli anni Sessanta che porta i fermenti della Nouvelle Vague nel momento di massima libertà della New Hollywood, congiungendo un cinema post-tutto, con la tradizione delle coppie vagabonde perché maledette, ricercate perché fuorilegge (La donna del bandito, Gangster Story, La rabbia giovane).
Ma soprattutto un grande e struggente mélo sociale su quanto possa essere totalizzante l’amore in una nazione priva di empatia verso umiliati e offesi, che si rivela attraverso un evidente espediente allegorico che – e qui sta la sapienza del regista, che a Venezia ha ricevuto il Leone d’Argento, suo primo riconoscimento internazionale – piega la teoria alla pratica, l’impalcatura intellettuale alla materia viva di un cinema che pulsa e ribolle, in cui l’amore ha un odore di morte, un sapore di carne e ossa.
Non ci interessa stabilire se i cannibali rappresentino i poveri dimenticati o i tossicodipendenti alla ricerca della dose (forse l’interpretazione più affascinante, sia per la quantità imprevista e imprevedibile sia per l’assonanza visiva con la degradazione fisica), figure capaci di catalizzare le marginalità di un decennio, rievocato e riplasmato grazie ai costumi simil grunge di Giulia Piersanti e la colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross.
Ci interessa di più confrontarci con altre istanze di questo film cupo e doloroso, in primis famiglie che abdicano di fronte al dolore (le apparizioni di Chloë Sevigny, André Holland e Jessica Harper) e adulti che si presentano come spacciatori di amicizia ma si rivelano predatori (Mark Rylance, spaventoso). Quando uno si chiede perché buona parte della genZ si riconosca nelle storie di Guadagnino, tenga conto di come riescano a dialogare con sogni e bisogni che spesso non trovano cittadinanza in un cinema borghese troppo preso dalle turbe degli adulti. Dilaniato e dilaniante, è un film che ci mangia il cuore.