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Carlotta Gamba in Quando
“Ultimamente risente molto della sua morte, rilegge quella pagina tutte le sere”. Il giovane protagonista de I giorni della vendemmia, un film indipendente ambientato nel settembre 1984, parla del padre comunista, sconvolto dalla morte di Enrico Berlinguer avvenuta poche settimane prima. La pagina a cui si riferisce è quella dell’Unità del 13 giugno, con una foto in bianco e nero del caro estinto e ADDIO scritto in rosso a caratteri cubitali. Una prima pagina leggendaria, che fa il paio con quella pubblicata l’indomani, in cui la parola TUTTI campeggia accanto a Sandro Pertini in lacrime e sopra la folla accorsa per il funerale a Piazza San Giovanni a Roma.
Di quel TUTTI si sarebbe ricordato Francesco Piccolo per Il desiderio di essere come tutti, l’autofiction con cui ha vinto il Premio Strega nel 2014, che deve il suo titolo proprio a quelle cinque lettere rosse, non un vezzo ma un segno grafico che definisce l’orizzonte narrativo: i funerali di Berlinguer rappresentano lo spartiacque del testo e in quel TUTTI non c’è solo un’idea d’Italia ma il romanzo della sinistra italiana attraverso un racconto di formazione individuale.
A sondare ciò che il cinema, la narrativa, la musica hanno prodotto su Berlinguer post mortem, verrebbe da dire che la grande eredità risieda anzitutto nella sua morte, un’esperienza collettiva che – almeno per una parte d’Italia – sembra chiudere anzitempo il dopoguerra, tra il sequestro di Aldo Moro (curioso che i due fautori del compromesso storico siano morti in circostanze tragiche, entrambi a loro modo in diretta televisiva) e la caduta del Muro di Berlino.
Pensiamo a Quando, il film che Walter Veltroni ha tratto dal suo omonimo romanzo, in cui, durante le esequie del leader, un giovane militante ha un incidente e finisce in coma per poi risvegliarsi molti anni dopo in un mondo ormai cambiato (troppo facile trovare i rimbalzi tra autobiografia e finzione). E così I funerali di Berlinguer, una delle canzoni più celebri dei Modena City Ramblers, che restituisce uno spaccato popolare di quei giorni dolorosi. Certo, non tutti si limitano alla rievocazione di quel momento, anche se, in un modo o nell’altro, la fine improvvisa e drammatica ha acuito la nostalgia per la “brava persona” (così dice Giorgio Gaber in Qualcuno era comunista) e un cedimento agiografico pur sincero e sentito (Antonello Venditti: “Chiudo gli occhi e penso a te, dolce Enrico/ Nel mio cuore accanto a me, tu sei vivo”).
Un popolo pietrificato da un’eterna elaborazione del lutto, come in fondo dimostra l’enorme mole di testi dai titoli piuttosto eloquenti: La sfida interrotta di Veltroni (che per il suo debutto da regista ha realizzato Quando c’era Berlinguer, commovente documentario molto istituzionale), Tutto quello che non doveva succedere in cui Andrea Cardoni ricorda i quattordici giorni che vanno dalla sconfitta della Roma in Coppa dei Campioni alla morte del segretario, Casa per casa, strada per strada curato da Pierpaolo Farina, solo per citarne alcuni.
Ma non deve essere un caso se il cinema di fiction non si sia mai misurato davvero con Berlinguer prima di Andrea Segre e La grande ambizione: è come se le immagini del funerale avessero già detto tutto ed è come se tutte le immagini di Berlinguer siano in qualche modo suggestionate dal presagio di quella fine.
L’unico che si è discostato da questa lettura pare essere Marco Bellocchio, che in Esterno notte relega il comunista (lo interpreta Lorenzo Gioielli) a due scene: nella prima c’è l’incontro segreto, sotto il monumento di Mazzini al Circo Massimo, in cui Moro fa leggere la lista del governo Andreotti a uno scettico Berlinguer; nella seconda, c’è una riunione con i segretari di tutti i partiti per decidere se trattare o meno con le Brigate Rosse, in cui Berlinguer ribadisce la linea della fermezza e Craxi (che era per la soluzione umanitaria) commenta con dileggio. Non è secondario ricordare che l’incendiario Bellocchio ha sempre guardato con un certo sospetto alle solide certezze del partitone, ma nel caso di Esterno notte il tema è l’irrilevanza dei comunisti in quella storia.
Tant’è che pure in un’altra ricostruzione del delitto, Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, quella di Berlinguer è poco più che un’apparizione (Francesco Carnelutti lo rappresenta preoccupato e grave). A differenza di altri politici come Aldo Moro (il meglio l’hanno dato Gian Maria Volontè, Roberto Herlitzka e Fabrizio Gifuni: ora tocca a Roberto Citran nell’imminente film di Segre) e Giulio Andreotti (Toni Servillo su tutti, in attesa di quello di Paolo Pierobon, curiosamente già magnifico interprete di potenti, da Silvio Berlusconi a Pio IX fino a Gabriele d’Annunzio in due occasioni), Berlinguer non ha una storia cinematografica (in tv ci sarebbe l’imitazione un po’ feroce di Alighiero Noschese): Elio Germano, insomma, lavora in un territorio vergine, e non è casuale il fatto che La grande ambizione tocchi un arco di vita compreso tra il 1973 (il tentato attentato dei servizi segreti bulgari a Sofia) al 1978 (il delitto Moro), lontano quindi dalla fine. Quasi a voler consegnare Berlinguer a un immaginario esterno alla cronaca, che esplori l’uomo, i suoi dubbi e le sue emozioni, al di là dell’iconografia tradizionale.
Quella tramandata dal documentario L’addio a Enrico Berlinguer, montaggio commemorativo firmato da una trentina di registi organici e non (tra loro i fratelli Bertolucci, Ettore Scola, Giuliano Montaldo, Carlo Lizzani, Citto Maselli, Luigi Magni, Gillo Pontecorvo) per testimoniare l’imponente funerale, e che proprio quest’anno Michele Mellara e Alessandro Rossi (e Massimo Zamboni dei CCCP per le musiche) hanno “ripensato” in Arrivederci Berlinguer!, doc che fa un passo in avanti rispetto a quello del 1984.
Le immagini sono le stesse (provengono dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico) ma a cambiare è il metodo: non più il compianto del compagno scomparso troppo presto e del leader di un popolo da consolare, ma la celebrazione di una certa idea d’intendere la politica e di una figura che ha segnato un’epoca. Le voci dei militanti che piangono, le lacrime dei vecchi partigiani e dei bambini smarriti, restituiscono la vita perduta al caro estinto: un modo per trasformare la liturgia dell’addio nella riappropriazione della lezione, dove le parole degli “orfani” si emancipano dalla retorica per ritrovare consistenza emotiva e forza politica.
E quest’anno è uscito anche Prima della fine, in cui Samuele Rossi si concentra sugli ultimi giorni di Berlinguer: anche qui ci si affida agli archivi (lavorare sulla memoria significa prendersi carico delle immagini e di ciò che rappresentano), ma c’è il presente grazie ai ricordi delle voci di dentro, che restano fuori in quanto testimoni attivi della vicenda (non ne vediamo le facce), dalla giornalista locale al segretario cittadino fino al funzionario del servizio d’ordine. Una riflessione sulla civiltà delle immagini e sul potere della comunicazione politica, con il volto di Berlinguer ripreso, quel 7 giugno 1984, su quei maxischermi che per la prima volta il Partito decise di utilizzare per amplificare l’impatto del comizio: in questa decisione “moderna” c’è fatalmente qualcosa di imprevedibile e che ha pochi eguali nella storia nazionale, con il capo di una comunità che offre il proprio corpo allo sguardo della massa, che – lui così timido e discreto – per cinque giorni muore in diretta senza che essere ostentato al voyeurismo mediatico.
Con quel rewind finale che, scavallando nastri rovinati e suoni gracchianti, tenta l’impossibile e sfida la nostalgia in nome dell’utopia. Proposte che si servono dell’anniversario per ragionare sull’icona ma che non risolvono il nodo della rappresentazione nella fiction, dandoci conto soprattutto dell’esperienza collettiva del lutto piuttosto che la biografia del singolo. Forse era già tutto previsto, essendo in fondo accaduto con il segretario in vita nel dissacrante Berlinguer ti voglio bene: per il devoto militante Cioni Mario ovvero Roberto Benigni, il capo è un mito da interrogare, onorare, amare.