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Fauda
In una scena di Collateral di Michael Mann, il taxi nella notte è costretto a fermarsi per lasciar passare alcuni coyote. Cani-fantasma denudano il paesaggio metropolitano, lo riconducono alla sua autenticità: lì c’era il deserto e il deserto s’insinua ben oltre gli spazi privi di cemento della "città di quarzo". Il deserto abita nel killer implacabile Vincent-Tom Cruise, figlio del paradigma nichilista vittima-carnefice (ieri orfano, oggi assassino); il deserto lambisce il giovane taxista nero Max-Jamie Foxx in fuga dalle sue frustrazioni. Non solo. Il coyote, il canis latrans, è un ossimoro carnivoro: è lo sciacallo lamentoso. “Predatore del lutto, uomo”. Forse Mann conosce l’aforisma di Canetti. Quale distanza c’è fra la Los Angeles del film e Gaza? Quale guerra non può dirsi “civile”?
L’autista e il passeggero di un taxi suscitano domande non molto diverse da quelle che si pone l’ex agente antiterrorismo Lionel Raz nella "profetica" serie Fauda, di cui è autore e protagonista. L’esito di entrambe le storie è sanguinario e solo apparentemente salvifico: se la violenza è un contagio, si può uccidere "a fin di bene" senza esserne segnati per sempre? Il tragico 7 ottobre 2023, la data dell’attacco terroristico di Hamas contro Israele, ha riacceso il conflitto israelo-palestinese, scandito da una guerra delle immagini più acuta e insidiosa che mai.
Una guerra combattuta tramite i mass media, ma la cui linea di fuoco è assai pervasiva e frastagliata grazie ai social network utilizzati dai belligeranti e dai rispettivi “followers”. I miliziani di Hamas hanno sgozzato i neonati ebrei presi in ostaggio nei kibbutz di Reim e di Be’eri? E prima di assassinarle, hanno stuprato alcune delle ragazze partecipanti al Nova Music Festival? D’altro canto, l’IDF ha colpito ripetutamente l’ospedale di Al Shifa nella Striscia di Gaza sostenendo che celava armi e munizioni di Hamas. Le vittime palestinesi delle bombe di Tel Aviv sono più di ventiduemila mentre scriviamo e non si contano neanche più nelle cronache quotidiane. Ma le armi di Al Shifa sono state poi ritrovate o no? Nessuno può dirlo con certezza.
Eppure, i “sostenitori” di entrambi i contendenti, anche in Italia, spesso brillano per la sicumera e il fanatismo delle rispettive posizioni, cieche a ogni dubbio in nome dell’appartenenza, ovvero, nei casi più raffinati, dell’antitesi amico-nemico che secondo Carl Schmitt è il fondamento stesso dello status politico (la Realpolitik). È l’11 settembre 2001 lo spartiacque del mondo di cui siamo i testimoni e i partecipi, quando non gli inconsapevoli agit-prop all’insegna del climax. Il crollo delle Torri Gemelle, con gli echi di Inferno di cristallo, Die Hard – Trappola di cristallo, 1997 Fuga da New York, ha dato la stura alla ricerca dell’acme, alla dismisura, alla hybris.
La barbarie è puntualmente scavalcata da un nuovo eccesso nella corsa all’effetto prodigioso che annichilisce il residuo pudore e svilisce il tragico, sia nell’Occidente sia nel mondo islamico parimenti in preda al “post-pensiero” televisivo di cui scrisse Giovanni Sartori in un suo saggio polemico (Laterza 1997). L’immaginario collettivo si è affrancato del tutto o quasi dai tabù dell’eros e della morte e li sacrifica a uno sguardo onnivoro e sadico. Se non è “l’occhio che uccide” di un famoso film, poco ci manca. Nel ‘900 nessun aguzzino avrebbe pensato di documentare le umiliazioni, il dolore e la fine delle sue vittime. Anzi, gli orrori venivano nascosti e negati.
L’esibizione della ghigliottina e "la macelleria del potere" attengono al premoderno, quando – Michel Foucault docet – la punizione esemplare sanzionava l’offesa al corpo sacro del re (Einaudi 1976). Persino dal disumano recinto di Auschwitz le rare testimonianze visive sono postume o esterne: i filmati dei registi al seguito degli Alleati che liberano i lager o le immagini aeree della RAF nelle quali la colonna di fumo dei forni crematori allude allo sterminio.
Ripensiamo, invece, alle fotografie dei soldati statunitensi che torturano i prigionieri di guerra iracheni nel carcere di Abu Ghraib, scattate nel 2004 dagli stessi torturatori in posa (i primi selfie) o ai video delle decapitazioni per mano jihadista degli ostaggi americani e europei: una barbarie che «parlava» all’inconscio occidentale in cui sono sedimentate le rappresentazioni bibliche di Salomè o di Giuditta e Oloferne (Caravaggio, Donatello, Strauss). Anche nei video successivi al 7 ottobre c’è un che di pornografico: l’inimicizia, la guerra e il suo cuore di tenebra ridotti a immagini di propaganda. Una beffarda “amatorialità” per comunicare con la vasta schiera dei dilettanti/protagonisti su Facebook, X e Instagram. Sarebbe questo il famoso “scontro delle civiltà”?
Sembra piuttosto un duello intestino alla “civiltà dell’immagine”, che porta alle estreme conseguenze lo sciacallaggio quotidiano che le è proprio, appena stemperato dal dibattito su censura sì o no, in fin dei conti risolto nell’ipocrisia di oscurare lo shock del momento fatale. Da sempre – basterà rammentare l’Iliade – la guerra è la narrazione per eccellenza, trama connettiva fra le generazioni che si tramandano ed eternano odi, impermeabili alle ragioni del presente, verso popoli lontani o sovente confinanti.
Ma dell’11 settembre in poi l’attacco è spettacolo, lo ingloba e se ne alimenta, tanto più negli esiti che, ha ragione Jacques Derrida (Il sogno di Benjamin, Bompiani 2003), escludono la produzione di immagini realistiche, in favore della suggestione dell’evento. Allora, si può davvero mostrare la guerra senza essere embedded, incastrati, conficcati all’interno di un esercito come i giornalisti e i cineoperatori al seguito degli americani in Iraq e oggi dell’IDF nella Striscia di Gaza? Si può sfuggire alle contingenze, alle direttive e alle censure delle forze in campo, alla presunzione di vedere il nemico senza considerarsi visti dal nemico o da sé stessi in guerra? Susan Sontag scrive che “noi”, cioè chiunque non abbia vissuto una guerra e non ne sia scampato, “non riusciamo a capire e neppure a immaginare quanto è terribile e terrificante la guerra; e quanto normale diventa” (Davanti al dolore degli altri, Mondadori 2003).
Se così è, la documentazione e l’informazione audiovisive, anche quando non sono sofisticate o artefatte, possono produrre un’eterogenesi dei fini: ci persuadono che noi sappiamo, comprendiamo, partecipiamo al dolore altrui, mentre in realtà ci limitiamo a guardarlo con una voluttà direttamente proporzionale all’indifferenza. Senza la fatica della lettura e l’impegno della politica, possiamo immagazzinare migliaia di visioni quotidiane che non producono una parola, una scelta, uno scandalo, perché impegnate a riprodurre sé stesse. Rovesciando la famosa massima di Tacito, “hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato guerra”. Già, il deserto.