Hanno scelto come titolo The future of Hollywood per il panel conclusivo dell’AVPSummit, terzo meeting internazionale dei produttori dell’audiovisivo che si è tenuto a Scilla, dal 10 al 12 giugno. Un finale che nelle intenzioni degli organizzatori – un florilegio di sigle: l’APA, con il sostegno del MiC, del MAECI, della Fondazione Calabria Film Commission, di Cinecittà, di MPA - Motion Picture Association, PGA - Producers Guild of America, CNC- Centre National du Cinéma et de l’image animée, Unifrance e BFI - British Film Institute – avrebbe dovuto rilanciare lo status questionis dell’audiovisivo nel campo del possibile.

Quale scenario ci prospetta il futuro? E come arrivarci? Se l’obiettivo era questo, il panel lo ha completamente disatteso. I relatori scelti per sviscerare il tema non erano adeguati? Non è questo. John August è uno degli sceneggiatori di punta di Hollywood, membro della WGA e tra i più ascoltati esponenti della categoria, sia nella fase dello sciopero che in occasione del negoziato che ha suggellato armistizio e rinnovo del contratto con i produttori hollywoodiani.

Di questi era presente un campionario rappresentativo nel panel: dai più navigati e battaglieri come Neils Juul (CEO di No Fat Ego), che ha annunciato la morte del cinema indipendente e mandato a quel paese la Hollywood odierna per la sua subalternità alla finanza e all’algoritmo; a quelli che inseguono terze vie come DeVon Franklin (Presidente e CEO della Franklin Entertainment), produttore di film a tema religioso (tra i titoli Jesus Revolution, Miracle Revolution, Atto di fede) e propugnatore di un ritorno di Hollywood alle comunità di persone, soprattutto quelle sottorappresentate; gli aperturisti come Lori McCreary (CEO di Revelations Entertainment) che non demonizzano e nemmeno sposano l’AI, perché “la tecnologia può sempre aiutarci a fare film migliori”; agli istituzionali come Veronica Sullivan (tra le altre cariche Senior Vice President di NBC Universal), che ha ricordato come la nuova Hollywood si sia ormai trasferita in Georgia e in tutte quelle giurisdizioni locali dove è possibile raccogliere aiuti governativi. Moderava Gary Lucchesi, presidente emerito di PGA.

Tutti professionisti con le giuste credenziali per stare lì a intestarsi il tema. Eppure nulla di realmente significativo è emerso dal loro confronto. E non è solo un problema di tempistiche strette (45 minuti per decifrare il futuro sembrano pochi, ok), di sovraffollamento (comunque troppe voci in un tempo così piccolo) o un effetto della smobilitazione collettiva che ha colto il summit proprio alle battute finali (molti conferenzieri e istituzionali erano già partiti, così il panel è andato praticamente deserto, con la significativa assenza della compagine produttiva italiana). L’impressione, anche mettendo insieme i pezzi non sempre concordanti dei vari appuntamenti che hanno caratterizzato questa terza edizione di AVP, è che siamo dentro uno stallo messicano.

Si fronteggiano un passato che non è più, un presente che non si capisce bene cosa sia e un futuro che non è ancora. Lo rivelano i corsi e ricorsi linguistici di questa tre giorni, dove insistentemente si è ripetuto che l’età dell’oro dell’audiovisivo è finita; che l’AI è, dannosa o auspicabile, comunque inesorabile; che bisogna essere audaci ma senza veramente inventarsi nulla; che bisogna tornare alle persone ma alimentare i franchise; che l’originalità conta, la diversificazione serve e il sostegno pubblico è ovviamente fondamentale. Che insomma siamo stati bene in questi anni ma non abbiamo costruito nulla che potesse durare.

Chi cercava parole nuove da questo summit sarà rimasto deluso. Non ci sono. Non ancora. Nemmeno dal faro americano, capace in altri momenti di indicare una strada a forza di inseguire il business. Certo il discorso sulle comunità, sostenuto da DeVon, è interessante ma sa di decrescita felice, legato com’è alla realtà americana, con pochi punti di contatto con la grande sfida globale del cinema americano che fu.

A dirla tutta, la parola cinema non è stata nemmeno tra quelle più gettonate. L’impressione è che alla voce audiovisivo si ci imbatta soprattutto nella tv. Seriale, lineare, scripted e unscripted. Un lascito, forse il più duraturo, dall’avvento delle piattaforme. Abbiamo dovuto aspettare l’intervento di Paolo Del Brocco per riascoltare la parolina di cui sopra, che suona bene ma frutta al momento poco. Come ha ricordato il CEO di Rai Cinema nel panel dedicato alla tv pubblica, dove comunque parlava dopo Maria Pia Ammirati, capo di Rai Fiction. Del Brocco ha sostanzialmente buttato la palla dall’altra parte del campo: “La sofferenza del box office mondiale – ha detto - è anche frutto della mancanza del grande film americano, il vecchio blockbuster di narrazione. Negli ultimi anni siamo stati abituati a film di effetti speciali e franchise che probabilmente hanno stancato il pubblico. Film che avevano più effetti che storie. Opere come Forrest Gump, Philadelphia, grandi rom-com alla Pretty Woman non se ne fanno più”.

Un’analisi tutto sommato condivisibile, alla luce anche dell’exploit di due titoli standalone come Barbie e Oppenheimer, che lo scorso anno hanno salvato il botteghino globale. Ma del tutto agli antipodi rispetto a quella proposta, con robusto ottimismo, da Wayne Garvie (Presidente of International Production, Sony Pictures Television) nel keynote che ha di fatto aperto i lavori, quando ha auspicato la creazione di nuovi franchise europei, che lavorino non sulla discontinuità creativa ma sulla longevità sostenibile. Tradotto: quando ti imbatti in un successo, fallo fruttare il più possibile. Non serve l’originalità a tutti i costi, ma la messa a regime delle storie che già possediamo.

Alla ricerca del contenuto perduto. Potrebbe essere una delle tracce del summit. Con accenti più o meno positivi. Le storie hanno illuminato gli spotlight sulle grandi aziende dell’audiovisivo italiano, dalla già ricordata Rai a Sky, passando da Mediaset, che sono però sembrati più una via di mezzo tra la celebrazione delle diverse filosofie d’impresa e la presentazione dei listini. Così come vetrine promozionali lo sono stati sicuramente i due panel dedicati all’intelligenza artificiale, dove almeno si è usciti dall’approccio dello spauracchio per osservare alcune utili applicazioni dell’AI nei processi produttivi, specialmente nell’ambito della virtual production. Quello che abbiamo capito, pur nell’alta specificità di alcuni interventi, è che l’AI non salverà l’audiovisivo e nemmeno lo condannerà a morte. Sono sempre gli uomini a fare e disfare.

Uomini sono anche i politici, che portano la responsabilità delle decisioni legislative e finanziarie sul comparto. Non è un caso se il panel più affollato è stato quello relativo all’analisi comparativa dei sistemi di sostegno pubblico, che ha visto Italia, Francia e Gran Bretagna mettere a confronto i diversi meccanismi. Defiscalizzazione, tax credit, co-produzioni rappresentano ancora le chiavi per entrare nel glossario delle politiche pubbliche e nelle aspettative dei nostri produttori. Del resto, quando mancano parole nuove è alle vecchie che bisogna affidarsi. Ce lo ha ricordato Garvie parlando di onda lunga dei successi.

Un bagno di realtà necessario. Ma è anche purificatorio? Davvero torneranno i prati, ovvero i grandi franchise? O, come vorrebbe Del Brocco, i blockbuster di una volta? L’impressione è che la centralità del business, dunque dei soldi, abbia finito un po’ per invertire la logica con cui si muove la macchina: è come se il problema in fondo fosse quanta benzina ci metto e non dove voglio andare. Il desiderio dunque. E un immaginario all’altezza. Per parlare dei quali al prossimo summit servirà davvero un’innovazione, un breakthrough epocale. E non potremo nemmeno chiederlo all’intelligenza artificiale.