La golden age dell’audiovisivo italiano è finita. Le incertezze rispetto al quadro normativo, i paventati tagli al tax credit, la congiuntura internazionale e la minore apertura di credito dei commissioner americani sono tra i fattori che di colpo hanno fermato una macchina creativa e produttiva che per dieci-dodici anni ha viaggiato con marce alte. Fino al 2023 almeno. L’allarme arriva dai produttori italiani intervenuti al panel sull’internazionalizzazione del nostro prodotto (“New Frontieres in Storytelling: National Stories for International Audiences”) nell’ambito dell’AVP Summit di APA in programma a Scilla fino al 12 giugno.

“Nell’ultimo anno e mezzo siamo implosi. Letteralmente fermi. – ha ammesso Roberto Sessa, Ceo di Picomedia - Non è pigrizia, è incertezza, mancano le risorse. E siamo sempre in attesa di capire che cosa vogliono fare i politici nei nostri confronti: non si può dire che lo Stato finanzia i film al cento per cento e che i produttori non rischiano nulla. Abbiamo sempre messo risorse. La questione è un’altra: abbiamo creato un modello che ora altri paesi, soprattutto in Asia, ci copiano. Lì hanno capito che finanziare il settore significa alimentare un’industria importante. Noi invece lo stiamo abbandonando”. Il riferimento è alle recenti dichiarazioni alla Festa del Foglio del Ministro della Cultura Sangiuliano sulla necessità di una stretta moralizzatrice sul tax credit.

Uno scenario su cui i nostri produttori si stanno già esercitando: “Bisogna tornare a un modello in cui non esiste più un buyout completo dei diritti – ha suggerito Benedetto Habib di Indiana Productions – e ripensare a un downsize del settore che rimedi alla febbre dello sviluppo che ha caratterizzato questi anni. Sviluppare meno e finalizzare di più, cercando di essere più selettivi fin nella prima fase del processo. E tornare alle collaborazioni”. In sostanza al vecchio modello delle co-produzioni, con uno scambio di risorse creative e finanziarie tra i player continentali, evitando però l’effetto europudding di cui nessuno ha nostalgia.

Del resto, per muoversi in un mercato dei contenuti globale bisogna essere globali, ovvero anglofoni, perché, come confessa sconsolato Luca Bernabei (Lux Vide), “pensare di tradurre una sceneggiatura scritta da italiani e venderla all’estero è utopia. Anche se magari noi abbiamo più calore nella scrittura”. In fondo anche l’infatuazione estera per la nostra lingua sembra finita, come conferma Roberto Sessa: “Non vogliono più l’italiano sottotitolato, esperimento forse durato cinque anni. Vogliono solo l’inglese”.

Ma non è solo una questione di lingua, ma di codici: “Dobbiamo sforzarci di giocare con le regole degli altri paesi – esorta Verdiana Bixio, Presidente di Publispei -. La scrittura non può essere limitata alla nostra tradizione ma va adattata ad altri contesti, gli intrecci vanno creati per generi diversi. Ad esempio il nostro Tutti pazzi per amore era di base un family, a cui però abbiamo aggiunto qualcosa di nostro, di originale. Il ballo, il colore, il look. Un’innovazione che ci ha premiato al punto che CBS ha acquistato i diritti”. Un concetto ripetuto da Federico Scardamaglia (Ceo di Compagnia Leone Cinematografica) quando invita tutti, dai produttori agli sceneggiatori ad “affrontare altri generi, come la rom-com o il family, che non appartengono alla nostra tradizione”.

Per tutti resta decisiva la proprietà intellettuale, soprattutto per contenuti high end, come Il gattopardo (che uscirà tra la fine di quest’anno e l’inizio del nuovo, come ha confermato Benedetto Habib), La storia o I leoni di Sicilia . A meno di non vincere scommesse local come I cesaroni (che ha avuto molta fortuna in Spagna) o Per Elisa, sul caso Elisa Claps, “che aveva il vantaggio però di nascere già sul doppio binario Italia-Inghilterra, per l’ambientazione dei fatti”, come ha ricordato il produttore Ben Donald, di Cosmopolitan Pictures.

Restano le storie la vera assicurazione per il futuro dell’Italia e del Vecchio Continente. Ne è convinto Wayne Garvie, Presidente della produzione internazionale di Sony Pictures Television, protagonista del keynote del mattino: “L’Europa è il cuore delle storie del mondo. Gli americani non fanno altro che prendere storie europee e farne nuove storie, da Il gladiatore a Ferrari. In fondo Il trono di spade cos’è, se non la Guerra delle Due Rose con i draghi? Ma potrei continuare: Netlifx ad esempio ha annunciato ieri una versione de Il decameron.”

Per Garvie non bisogna creare sempre il nuovo ma lavorare sulla longevità dei successi che si riescono ad ottenere. Ancora una volta la parola chiave è franchise, possibilmente di origine europea. È vero che la golden age è finita ma non è detto che sia  tutto perduto: “Siamo alla vigilia di una quarta era della televisione e, piuttosto che coprirci la testa col cuscino, dovremmo cogliere le potenzialità offerte dalla nuova situazione. Se vent’anni fa aveste detto a un produttore tv che la fiction sarebbe stata il centro nevralgico dei canali e ci sarebbero state piattaforme che le avrebbero mandate sulle tv di tutto il mondo, che le barriere linguistiche sarebbero sparite, e che tutto questo sarebbe diventato un modello straordinario di business, quel produttore non vi avrebbe creduto.” Dunque, perché pensare che tutto questo non possa riaccadere di nuovo? “Se vogliamo che l’età dell’oro continui – conclude Garvie - dobbiamo sforzarci di farla continuare piuttosto che piangerci addosso. Per usare una citazione che voi italiani capite benissimo: se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.