“Mi piaceva il fatto che il protagonista fosse una persona che non fa nulla in una comunità e che fosse così innocente da non capire bene il senso di potere e di rivincita. Ho raccontato una società nascosta che si trova in una situazione pre-capitalista prima che il capitalismo abbia inizio”.
Così la regista Athina Rachel Tsangary alla presentazione del suo nuovo film in concorso a Venezia 81.

Si intitola Harvest ed è un adattamento dell’omonimo romanzo di Jim Crace. Nel film una comunità agricola viene sconvolta da tre tipi di forestieri: il cartografo, il migrante e l’uomo d’affari, tutti archetipi di cambiamenti sconvolgenti. Una storia universale di perdita della terra che mostra le crepe della prima rivoluzione industriale, nonché una tragicomica interpretazione del genere western.

“Avevo detto che il mio prossimo film sarebbe stato un western perché volevo tremendamente che lo fosse - racconta la regista -. L’ho girato nell’ovest della Scozia e da quel punto di vista è certamente un western”.

E poi: “Uno dei periodi cinematografici che più apprezzo è quello americano degli anni settanta. Per esempio Altman mi ha sempre influenzata molto con i suoi personaggi circondati dalla forza della natura. Qui i miei personaggi si trovano nel bel mezzo di questa natura onnipotente e loro stessi riescono a distruggere quell’ambiente. Ho creato una dimensione immersiva. Non siamo stati specifici sul tempo. Mi attraeva questa natura archetipale. È come una fantascienza nel presente. Non è un film sul passato, ma è il futuro che è sempre lì pronto”.
La città è stata costruita dal nulla. Un mondo chiuso. “La cosa bella di questo film non è stato costruire questo luogo che è sempre esistito- prosegue-. Era un terreno arabile, ma dopo la enclosure act è diventato terreno di pascolo ed è stato invaso dalle pecore. La produzione è riuscita a trovare il giusto luogo che ci serviva. Abbiamo scalato una collina e improvvisamente ci è apparso. È fondamentale il processo con il quale si è creato questo mondo che non esiste, ma comunque realistico”.
Nel cast Caleb Landry Jones, Harry Melling, Rosy McEwen, Arinzé Kene e Thalissa Teixeira, nel ruolo di una donna che vive nell’acqua.
“Il mio personaggio viene da un lago - dice l’attrice -. Parlo portoghese, mio padre è brasiliano e ho vissuto lì fino a quando avevo otto anni. Poi sono andata a Londra. Athina e io ci siamo incontrate e mi ha detto talassa che in greco significa mare. Qui c’è tanta cultura e musica che passa attraverso l’acqua. È riuscita a creare un villaggio per ogni personaggio”.

Caleb Landry Jones in Harvest - Credits Jaclyn Martinez Harvest Film Limited
Caleb Landry Jones in Harvest - Credits Jaclyn Martinez Harvest Film Limited

Caleb Landry Jones in Harvest - Credits Jaclyn Martinez Harvest Film Limited

“Siamo entrati in qualcosa di molto antico - dice Caleb Landry Jones -. Quando siamo arrivati lì lo spazio ci ha fatto immergere nei personaggi. Abbiamo imparato e fatto cose che mai avremmo pensato di fare come i balli dove eravamo liberi. A tutti noi è stata data la possibilità di poterci esplorare e capire chi eravamo nell’ambito di questo film”.
Difficile comunque per Joslyn Barnes e la stessa Athina Rachel Tsangari, cosceneggiatrici del film, adattare il romanzo originale.
“È stato complesso soprattutto dal punto di vista del dialogo interiore di Walter, un uomo di città datosi all’agricoltura- spiega la regista-. Cercavo di capire cosa pensava: una persona che non appartiene all’ambiente e desidera un futuro che non avrà mai e ha nostalgia di un passato che gli viene tolto. Ho cercato di raccontare questa sua incapacità di abitare il presente. Abbiamo cercato di dare una svolta portando anche la ferocia in una piccola comunità in cui le donne sono limitate nella gestione del potere. A differenza del libro qui le donne fanno qualcosa”.
Infine sul fatto che molte delle sue inquadrature richiamano la pittura dice: “All’inizio quando si fa un film si raccolgono immagini. Mi hanno influenzato Bruegel e Rembrandt. I ritratti, ma anche le grandi tele mi hanno ispirato nella mia mise en scene che spazia dalla natura al volto. Con il direttore della fotografia abbiamo costruito questo mondo e abbiamo usato pochissima luce. Abbiamo dato testimonianza e raccolto i doni di quel che la terra ci dava”.