PHOTO
Barbara Ronchi e Edoardo Leo in Era ora (credits: Fabio Lovino)
Nasce da un film australiano, Era ora, Long Story Short di Josh Lawson, uscito in Italia con il titolo Come se non ci fosse un domani, e arriva dal 16 marzo su Netflix dopo la presentazione all’ultima Festa del Cinema di Roma nella sezione Grand Public. Ma il regista Alessandro Aronadio (anche sceneggiatore con Renato Sannio) non vuole parlare di remake: “Piuttosto direi make, perché l’abbiamo completamente riscritto. Mi interessava l’idea del salto nel tempo, un tema che permette di usare il tono della commedia per affrontare temi angoscianti. E abbiamo cambiato il protagonista: nell’originale è un procrastinatore, qui uno che corre dietro a mille impegni”.
Era ora è la storia di Dante (e “nel mezzo del cammin” non è un riferimento casuale), che ama Alice ma si affanna troppo perché non riesce a conciliare tutto, convinto che, se lavorerà abbastanza, tra qualche anno potrà comprare un po’ di tempo. Finché, all’indomani dei suoi primi quarant’anni, si sveglia e si ritrova un anno in avanti: come è possibile che sia già il giorno del suo quarantunesimo compleanno? E come fa Alice a essere incinta di quattro mesi? Cosa ne è stato del resto del suo anno?
“Nelle classiche storie sui paradossi temporali – spiega Aronadio – si torna sempre al punto di partenza, come se alla fine fosse stato tutto uno scherzo. Invece volevo che si percepisse il tempo che ci sfugge dalle mani”. La cornice è quella della commedia romantica: “È un film sui tempi diversi che hanno i membri di una coppia: a Dante non basta mai, mentre Alice ha trovato una sua dimensione. All’inizio siamo convinti che i loro orologi siano sincronizzati, poi ci rendiamo conto che un ticchettio è più forte dell’altro. Quando stanno insieme è come se fossero nello stesso posto ma in anni diversi”.
Prodotto da Carlo Degli Esposti, Nicola Serra, Riccardo Russo per BIM Produzione (una società del Gruppo Wild Bunch), Palomar (Mediawan Group) e Vision Distribution, Era ora nasce all’epoca del lockdown: “A poco a poco abbiamo percepito quanto quella situazione fosse unica e incredibile: in un tempo che si era fermato, abbiamo scritto un film su uno che non sta mai fermo. Credo che la commedia abbia il dovere di intercettare o prevedere qualcosa che sta accadendo nella società: in Io c’è il protagonista che diceva ‘Io sono il mio Dio’ è lo stesso che, durante il Covid, sosteneva di essere il medico di se stesso”.
Quel personaggio che non sta mai fermo ha il volto di Edoardo Leo: “Il tempo è una percezione, passa e non te ne accorgi. Pensando a quanto Dante si senta soffocato dal lavoro, torno agli anni in cui ero giovane, tutto andava male e non riuscivo a pagare l’affitto: lì sì che avrei voluto essere soffocato dal lavoro. Ora, a cinquant’anni, faccio ciò che ho sempre rincorso, anche se l’equilibrio non si trova mai”. C’entra il mestiere dell’attore? “Non credo che a certi livelli possa bastare la passione, per quanto divorante: deve essere quasi un’ossessione, altrimenti è un hobby. Ogni volta che sono sul set o in viaggio per una tournée mi chiedo perché sottraggo tempo alla famiglia. La verità è che non ne posso fare a meno: c’è una componente eroica che convive con un’altra miserabile. La passione divora un sacco di cose ma te ne accorgi dopo. E quel sacrificio confluisce nelle cose che racconterai”.
“Ho sempre pensato fosse più importante la qualità più che la quantità del tempo – riflette Barbara Ronchi, che nel film interpreta Alice – ma ora che sono madre mi rendo conto che gli affetti richiedono quantità: a fare la differenza è che sta investendo il tuo tempo, non un bel tempo. le scelte che fai devono essere mosse dalla quantità del tempo. In questo senso mi sembra un film molto amaro, perché ci mette di fronte alle vite che abbiamo scelto di fare”. L’incidenza della pandemia nel quotidiano? “È stato un tempo per pensare: ci si riconosce in chi vuole fermarsi per tornare alle priorità. Per le donne è tutto più faticoso”. E le fa eco Leo: “Non essendoci una reale parità di genere, le donne sono costrette a rinunciare a qualcosa non per desiderio ma per necessità. Per resa più che per scelta”.
Per Leo, Era ora arriva in un momento particolarmente ricco: “Il film più faticoso della mia vita, con lunghe sedute di trucco per invecchiarmi e ringiovanirmi. Ma anche uno dei più importanti, con punti di contatto con quello che ho appena girato con Liliana Cavani, L’ordine del tempo. Oggi penso che sia fondamentale godersi il qui e ora, ma forse non avrei detto la stessa cosa vent’anni fa”. E sulla situazione del cinema italiano: “È un momento complesso che dovrebbe responsabilizzarci a fare del nostro meglio: stanno succedendo molte cose, un autore deve essere stimolato, dobbiamo cogliere le opportunità di questi cambiamenti”.
E sul j’accuse di Pierfrancesco Favino che, al Festival di Berlino, invocava più rispetto e considerazione per gli interpreti italiani, Leo allarga il discorso: “Sono ovviamente d’accordo, ha letto il comunicato di UNITA (Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo, ndr), l’associazione che ho contribuito a fondare, ma penso che il problema sia più ampio. Quello degli attori e delle attrici è l’unico comparto in tutta Europa senza un contratto nazionale di lavoro: non abbiamo la paga minima, non c’è previdenza sociale, non abbiamo riconoscimento sindacale, i produttori non ci ascoltano e il dialogo col governo sta riprendendo solo ora con molta fatica. Io oggi sto bene ma avrei voluto che da giovane, quando ho accettato proposte al limite, ci fosse qualcuno più grande che tutelasse me e tutta la categoria. Negli anni Settanta ci provò Gian Maria Volontè, invano. Ma d’altronde siamo in un Paese in cui quasi nessuno considera il mestiere dell’attore un vero lavoro. Dobbiamo rivendicare il nostro status di professionisti”.