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Anna Magnani in Roma (Webphoto)
È autunno da cinquant’anni, cioè da quando è morta Anna Magnani, il 26 novembre 1973, circa un anno e mezzo dopo la sua ultima apparizione sul grande schermo. Cioè Roma, città – e film – di cui è ineluttabile sineddoche: nel capolavoro più libero di Federico Fellini, la sua è un’epifania che da una parte ridimensiona – e sbeffeggia – il desiderio dell’autore che la vorrebbe emblema della città (“Una Roma vista come lupa e vestale, aristocratica e stracciona, tetra, buffonesca… potrei continuare fino a domattina”), dall’altra lo rilancia: in quel “no, nun me fido!” c’è tutto lo spirito di un popolo fatto di personaggi che credono ognuno d’essere il simbolo della città.
Ma Anna Magnani non è – si può usare il passato per chi trascende il tempo? – soltanto simbolo di Roma ma di una stagione, di un’epoca, di una nazione. Sacra e profana, icona votiva e carne viva, per lei l’articolo trascende il sessismo: “la” prima di Magnani evoca e definisce un mondo. Più che l’attrice italiana più rappresentativa, del cinema italiano ne è il paradigma.
“Non recita: vive” sentenzia Silvio D’Amico, trovandosela poco più che ventenne all’Accademia d’Arte Drammatica. Il teatro la cattura e il capocomico Antonio Gandusio si innamora di lei, poi si scatena nella rivista e con Totò gioca alla pari, infine il cinema la reclama: prima Goffredo Alessandrini che sposa e lascia nell’arco di un lustro, quindi Vittorio De Sica che in lei riconosce le stimmate della diva (Teresa Venerdì), Mario Bonnard che la mette accanto a un peso pari come Aldo Fabrizi (Campo de’ Fiori, archetipo della commedia all’italiana).
Acclamata dal pubblico, nella vita si scopre antieroina romantica, giacché dopo il tormentato matrimonio scoppia la passione con Massimo Serato, bellone d’epoca che la rende ragazza madre: lui scappa, lei riesce a imporre il proprio cognome al figlio, rinnovando una rivoluzionaria linea matriarcale (mai riconosciuta dal padre, un nobile calabrese, cresce con la nonna materna per l’indisponibilità della mamma), ma in quanto incinta deve rinunciare a Ossessione, l’esordio di Luchino Visconti.
Chiusa una porta, si apre la Capitale, cioè Roma città aperta, uno dei film più importanti della storia del cinema. Con un’immagine che diventa monumento: la sora Pina che scorge il futuro marito Francesco nel camion dei tedeschi, urla il suo nome, lo rincorre nonostante lui provi a fermarla con le grida, lei continua a correre e una raffica di mitra la fa cadere a terra, morta con le gambe scoperte, mentre il figlioletto la rincorre e piange.
Scrive Giuseppe Ungaretti: “Ti ho sentito gridare Francesco dietro un camion e non ti ho più dimenticato”. Non la dimentica nessuno: il successo è mondiale, della Magnani non ci si può che innamorare. Ne sa qualcosa Roberto Rossellini, che prima si lascia travolgere dall’impetuosa Nannarella e poi la lascia perché colpito dalle frecce di Ingrid Bergman.
Cinema e vita: l’ultimo film della coppia ha un titolo programmatico, L’amore, omaggio all’arte della Magnani: “Se tu mi mentissi per rendermi meno penosa la separazione” si lamenta al telefono in Una voce umana, uno dei due episodi del film. Dopo il maestro del neorealismo e la star hollywoodiana vanno a Stromboli e lei, per ripicca, a Vulcano: è la guerra dei vulcani, pura mitologia del cinema (anzi, del costume, della storia) d’Italia, solo che l’uno è un capolavoro e l’altro si ricorda solo per il gossip.
Ma la Magnani è simbolo di un’epoca perché tra le macerie racconta un’Italia piena di contraddizioni e fervori: è una cinica e sensuale doppogiochista in Il bandito, una popolana arricchita con la borsa nera nel dittico Abbasso la miseria! e Abbasso la ricchezza!, una borgatara che baccaglia nel profetico L’onorevole Angelina (dov’è accreditata come co-sceneggiatrice), la mamma che gioca tutte le carte affinché la figlia possa entrare nel mondo dello spettacolo in quello che forse è il suo capolavoro d’attrice, il profetico Bellissima.
Allo stesso tempo, la Magnani – che è talmente se stessa in ogni sua espressione che non può non interpretare se stessa: l’episodio nel collettivo Siamo donne – è fuori dal tempo, come un busto piantonato da secoli nel cuore di Roma: Assunta Spina dalla Napoli del primo Novecento, Anita Garibaldi nel fallimentare Camicie rosse, la quintessenza della commedia dell’arte in La carrozza d’oro (“nel mio film è tutte le altre attrici del mondo” dichiara Jean Renoir).
“Non posso fare a meno di seguire il nome di Anna Magnani da un punto esclamativo” dice Tennessee Williams, che sulla sua figura costruisce La rosa tatuata: il film è invecchiato ma per lei è un trionfo, anche perché al netto degli stereotipi impone il fatto che la nazionalità di un personaggio deve coincidere con quella dell’interprete. La Magnani è più di una “sensation”: attrici come lei, da quelle parte, non se ne fanno, la tradizione teatrale e la matrice realistica prendono fuoco sullo schermo, l’Oscar più che una consacrazione è una rivoluzione (prima interprete non di madrelingua inglese a vincere). Per un po’ Hollywood la coccola, Selvaggio è il vento e Pelle di serpente, ancora di Williams, uno che la capisce davvero: “La sua anima è un tutt’uno con il suo utero, materno e possessivo alla stessa stregua. Una volta che ti ha generato è pronta a fagocitarti. Di virile ha la cocciutaggine e la permalosità”.
Ma lei vuole l’Italia: ma l’Italia la vuole? Nella città l’inferno è bello ma un inferno (il rapporto con Giulietta Masina è bellicoso). Risate di gioia è bellissimo ma un flop (i duetti con Totò sono indimenticabili). La ciociara sarebbe perfetto ma lei non intende affatto avere Sophia Loren come figlia: lei rifiuta, George Cukor esce ed entra De Sica, Sophia diventa protagonista e arriva all’Oscar. Mamma Roma è un incontro tra predestinati, con Pier Paolo Pasolini se ne dicono di ogni e il risultato finale è tanto emozionante quanto forse non in linea con le ambizioni dell’uno e dell’altra.
La cosa incredibile è che per almeno un decennio il cinema italiano sembra omettere la Magnani: messa da parte perché troppo ingombrante, imponente nel momento in cui s’impongono gli autori, “larger than life” quindi inclassificabile per un’industria tanto florida quanto timida (con lei).
Torna al teatro: Franco Zeffirelli la vuole per La lupa (“Era due donne diverse – scrive il regista – e gli uomini di fronte a questo enigma, a questo Giano bifronte sbarellano”), lei trionfa e s’innamora del partner Osvaldo Ruggieri. E scopre la televisione: già malata si fa una e trina per Alfredo Giannetti nella trilogia La sciantosa (memorabile la sua esibizione di ‘O surdato ‘nnammurato), 1943: Un incontro e L’automobile, e trova al cinema un’appendice, Correva l’anno di grazia 1870, che il caso vuole vada sul piccolo schermo proprio il 26 settembre 1973, cioè il giorno della sua morte. Così, qualche mese dopo, la celebra Eduardo De Filippo: “Tutti i selciati di Roma hanno strillato. Le pietre del mondo li hanno uditi”. Ma forse il vero epitaffio se l’è fatto da sé, con l’ultima frase che dice in quei pochi secondi di Roma: “Ciao! Buonanotte!”.