Difficile trovare carriere più lunghe, prolifiche, eclettiche, versatili, travolgenti come quella di Angela Lansbury, attrice gigantesca e poliedrica, morta ieri all’età di 96 anni, cinque giorni prima di compierne 97. Difficile non solo perché la sua storia artistica è durata otto decenni, a partire da uno dei noir più affascinanti della golden age hollywoodiana, il vittoriano Angoscia di George Cukor che nel 1944 le vale subito una nomination all’Oscar. Statuetta alla quale è stata candidata per tre volte, sempre da non protagonista, e che non ha mai vinto fino al premio alla carriera – riparatorio, doveroso, sacrosanto – assegnatole nel 2014.

Ma è difficile trovarle perché Lansbury è stata tante cose: radici – e allure – inglesi e rinascita americana, caratterista infallibile e regina del teatro musicale (6 Tony Awards, tra gli altri per le leggendarie performance negli spettacoli Mame, Gypsy, Sweeney Todd), star del piccolo schermo e voce per cartoni animati, presenza familiare e icona pop.

Una professionista che ha fatto del metodo la cifra del proprio lavoro vissuto su più fronti e che forse quasi per caso si è ritrovata a gestire – intelligentemente – un imprevisto statuto divistico, procuratole soprattutto da una serie che, a distanza di quasi quarant’anni dalla prima trasmissione, continua a presidiare i palinsesti e le piattaforme.

Angela Lansbury in La signora in giallo (Universal - Webphoto)
Angela Lansbury in La signora in giallo (Universal - Webphoto)
Angela Lansbury in La signora in giallo (Universal - Webphoto)

Se da una parte è riduttivo raccontare Angela Lansbury solo attraverso La signora in giallo, dall’altra è pur vero che quelle dodici stagioni più quattro tv movie (12 nomination all’Emmy e mai un riconoscimento) ne hanno consolidato una mitologia nell’immaginario collettivo. Viene scelta per dar vita a Jessica Fletcher, simpatica e curiosa scrittrice di gialli, soprattutto per due motivi: aver interpretato Miss Marple, reference del personaggio, in Assassinio allo specchio (1980); e perché le sue origini – e anche la sua immagine – ricordano quelle della connazionale Agatha Christie, tant’è che il titolo originale Murder, She Wrote cita non a caso Murder, She Said, avventura con Miss Marple.

È incredibile come una serie oggi così anacronistica nella struttura (263 episodi, perlopiù autoconclusivi; nessuna linea orizzontale; guest star in ogni puntata e pochi personaggi che appaiono ciclicamente; una location stabile, la letale Cabot Cove, che si alterna ad altri delitti in giro per l’America) riesca tuttora a produrre ancora un repertorio di meme, gif, citazioni, video che rende la signora Lansbury una figura quotidiana per un pubblico eterogeneo e trasversale.

È qualcosa di davvero unico per un’attrice della sua generazione, che solo in parte è spiegato dall’impatto a lungo rilascio del programma televisivo, e che si spiega con una componente emotiva, che illumina un certo modo di dialogare con il divismo: l’affetto.

Un sentimento che ha il suo germoglio nel disneyano Pomi d’ottone e manici di scopa (1972), magnifica fantasia britannica che mette insieme persone e cartoon, le lezioni di magia e la seconda guerra mondiale, letti volanti e colpi di cannone, armature incantate e nazisti violenti. È questo ruolo di zitella di mezz’età, apprendista strega costretta a ospitare tre adolescenti, a garantirle un posto nel cuore degli spettatori, giovanissimi e non solo, che si sono imbattuti in questo film che è a tutti gli effetti un classico

Un affetto rafforzato da In compagnia dei lupi (1985) dove interpreta la nonna, narratrice di storie di sapore freudiano che finisce per diventare lei stessa protagonista di una storia. E suggellato dalla partecipazione a La bella e la bestia (1991), kolossal d’animazione in cui dà voce alla materna e dolce teiera, cantando la title track (che è diventata una sua hit), un’operazione di potenziamento nell’orizzonte infantile bissata dal doppiaggio dell’imperatrice di Anastasia (1998).

Hurd Hatfield e Angela Lansbury in Il ritratto di Dorian Gray (© MGM - Webphoto)
Hurd Hatfield e Angela Lansbury in Il ritratto di Dorian Gray (© MGM - Webphoto)
Hurd Hatfield e Angela Lansbury in Il ritratto di Dorian Gray (© MGM - Webphoto)

In fondo la sua grandezza è anche qui: aver costruito un’immagine positiva essendo partita da tutt’altro. Perché, negli anni della Hollywood classica, Angela Lansbury non si è imposta con ruoli amabili o accomodanti, nonostante gli inizi come sorella maggiore di Elizabeth Taylor in Gran Premio (1944) e da innamorata respinta ne Il ritratto di Dorian Gray (1945, seconda nomination all’Oscar).

Pur ventenne le fanno già recitare parti più anziane o da perfida comprimaria, citiamo almeno la cinica amante dell’aspirante presidente Spencer Tracy ne Lo stato dell’Unione (1948) e la filistea assurdamente uccisa da una lancia in Sansone e Dalila (1949), confermando il typecasting con le performance di una maturità arrivata molto presto, come quelle di un’altra amante ma stavolta di Orson Welles in La lunga estate calda (1959) o dell’antagonista di Sophia Loren in Olympia (1960).

Le affidano spesso parti da madre: ambiziosa in Come sposare una figlia (1959), morbosa in E il vento disperse la nebbia (1961), ingombrante in Jean Harlow, la donna che non sapeva amare (1965), spietata in quello che resta forse il suo capolavoro d’attrice, Va’ e uccidi (1962, altro Oscar mancato). Per poi arrivare, cinquantenne ma già monumento, a incarnare una donna, la signora Fletcher, senza figli, senza responsabilità familiari, dedita agli altri, risolutrice di casi apparentemente impossibili. Sono testimonianze di una ricchezza cromatica, una molteplicità espressiva, un rifiuto della prevedibilità che dimostrano quanto la sua sia stata una carriera davvero impareggiabile.