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Andrea Segre
Regista, sceneggiatore, produttore, Andrea Segre però è anche altro: un viaggiatore. I suoi film sono spostamenti da un luogo sulla terraferma a uno sull’acqua, da uno spazio mentale a uno dell’anima, sempre alla ricerca della scia tangibile lasciata dall’essere umano al suo passaggio. Non a caso che si esprima attraverso il documentario narrativo e di osservazione o il cinema di finzione lo sguardo di Segre resta profondamente umanista, aggrappato alle storie minime più che alla Storia di cui riflette i lati intimi anche quando si avvicina a personaggi realmente esistiti come accade in Berlinguer. La grande ambizione.
Un’attitudine che parte da lontano, precisamente dal 1998, anno dell’esordio con il documentario Lo sterminio dei popoli zingari con al centro la tragedia del tentativo di annientamento dei nomadi da parte dei nazisti e dei fascisti. Un’incursione toccante nei dolori e nelle atrocità vissute da donne e uomini inermi cui veniva negato il semplice diritto di esistere; un lavoro in cui Segre esibisce già una naturale capacità di stare dalla parte delle persone ferite e dei più deboli e di raccontarne le vicende con una empatia mai ricattatoria nei confronti dello spettatore.
I film guardano all’uomo e su di esso si concentrano, che muovano da momenti di vita cruciali dei protagonisti come in Welcome Venice o dalla cronaca come il caso Marghera messo in evidenza ne Il pianeta in mare. Un percorso lineare dal punto di vista poetico e tematico, che non scarta certo di lato quando l’autore incontra la finzione e gira nel 2011 l’intenso Io sono Li, ambientato a Chioggia. Un’opera che lo riporta, lui veneto di Dolo, a riscoprire la cittadina che insieme a Venezia e ad altre aree della laguna diventano nel corso degli anni coprotagoniste di avvenimenti che fotografano i cambiamenti e le crisi degli individui di fronte ai mutamenti sociali e alla difficoltà di continuare a tessere sinceri e profondi rapporti interpersonali.
Un percorso che tuttavia, nella sua linearità, soprattutto per quanto riguarda la produzione di finzione, non scorda di operare una costante evoluzione della messa in scena, che si fa sempre più libera e ricca nella ricerca di consonanze tra ambiente e personaggi. In Io sono Li e Welcome Venice, Chioggia e la città dei Dogi con le loro isole e ponti e calli si rivelano essere miraggi di benessere, in La prima neve le valli del Trentino non riescono a essere vero rifugio per chi cerca l’occasione per una nuova vita, nell’Ordine delle cose la Libia post Gheddafi è per il protagonista prigione fisica e mentale più che trampolino per fare carriera, in Berlinguer. La grande ambizione le stanze della casa dello statista sono specchio di quello stesso rigore che lo accompagna nella sede del partito e negli incontri pubblici.
Se il paesaggio e l’individuo sono nuclei narrativi ineludibili, non meno lo è il rapporto del singolo con la propria identità culturale. Shun Li, l’emigrata cinese del film di esordio, è sospesa tra l’affermare la propria cultura e il desiderio di penetrare in quella chiusa e tradizionale degli abitanti di Chioggia, così come Corrado Rinaldi, l’alto funzionario del Ministero dell’Interno italiano specializzato in missioni internazionali protagonista di L’ordine delle cose, mette in discussione le proprie certezze nell’incontro con una donna somala il cui spessore e cultura inevitabilmente lo attraggono. Uno scontro/incontro con l’altro, con l’ambiente e in primo luogo con se stessi, che conduce a una messa in discussione dei valori personali e dei legami con la società.
Temi sviscerati in modo mirabile in Welcome Venice, racconto crudo sullo sgretolarsi del tessuto sociale di una Venezia vittima di una gentrificazione che, partendo dal tessuto urbano, ben presto minaccia i singoli e intacca la loro morale. Il legame tra individuo e società dovrebbe raggiungere il suo massimo in Berlinguer. La grande ambizione in cui il corpo del politico, che in pubblico appariva tutto d’un pezzo mentre nel privato si scioglieva in una fratellanza partecipe ma rigorosa quanto ai principi alla base della dialettica e della comprensione.
Un’affettività domestica nota che si riverberava nelle uscite pubbliche, rafforzando a colpi di umanità la statura dello statista amato e rispettato da tutti. Si può quindi immaginare che quello di Segre sia un Berlinguer umano che trova nel senso della collettività, sociale e familiare, la chiave per governare il mondo della politica notoriamente poco avvezza alla dimensione civile auspicata dal segretario del PCI. Un obiettivo che il regista, stando almeno alle prime immagini, centra anche grazie a Elio Germano, il quale dimentica il suo corpo di attore per far vivere quello da silhouette chapliniana di Berlinguer. L’uomo su cui convergono le speranze di milioni di persone, figura indimenticabile al centro di spazi familiari e agorà pubbliche.