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A GreenVale non piove da cinque anni e dell’oro che aveva fatto le fortune della città non c’è più traccia. Lo sceriffo Arthur McCoy (Dominic Cooper) ha un bel daffare a tenere a bada la cittadinanza inquieta. Sogna, intanto, di fuggire in Italia, magari con Eve (Niv Sultan), tenutaria di un bordello che rimpiange, però, l’amore di Steve (Christian Cooke). Il contadino, però, ora è padre e marito e non vende i suoi terreni al losco bombarolo Thompson, in attesa della pioggia.
A scompaginare i piani dello sceriffo arriva Red-Bill (un Douglash Booth impressionante per somiglianza al Franco Nero di Django) cacciatore di taglie più per vendetta che per soldi. Lo preannuncia la scia di sangue della sua sacca (the dirty black bag, appunto) piena di capi mozzati: “le teste pesano meno dei corpi”. In una spirale di violenze, peripezie e colpi di scena, il loro destino incrocerà, però, quello di Bronson, uno spietato Guido Caprino pronto a tutto per riscattarsi da un passato oscuro.
Dal 25 gennaio su Paramount+ ecco la prima delle tre stagioni di That dirty black bag (le altre due sono già in produzione dato il successo oltreoceano), all-star serie prodotta da Palomar e BRON. Scritta a otto mani da Silvia Ebreul (Il Cacciatore), Marcello Izzo (Il Cacciatore) e Fabio Paladini (Il Cacciatore) con Mauro Aragoni (Nuraghes S'
Spaghetti-western in otto puntate (una per ogni giorno di trama), rinverdisce fedelmente tutti i tòpoi (e gli archetipi) del genere: la storia ‘triadica’, i campi lunghi sul deserto spagnolo di Tabernas, i pistoleri a cavallo, il nomadismo dell’eroe (solitario per vocazione e necessità), la frontiera assolata e le case nella prateria, mosche nella canna delle pistole e stalli alla messicana, pistole fumanti ed eroi trascinati a piedi dal nemico a cavallo.
Una serie ambiziosa che coniuga il rispetto (forse fin troppo ossequioso) della tradizione, all’incapsulamento della storia in uno spazio-tempo definito senza dimenticare l’attenzione verso l’interiorità delle sue creature. Non tutti, in effetti, a GreenVale sono affamati di soldi: se Thompson brama l’oro, Red Bill uccide per curare vecchie cicatrici familiari, a Steve interessa difendere la terra e un amore passato, Symone sembra pronta a rinunciare agli agi meretrici per sposarsi...
In anticipo su Django (dal 17 febbraio su Sky) e in ritardo di un anno sulla distribuzione americana, arriva in Italia l’ennesima trasfusione di un immaginario cinematografico nei moduli dilatati della serialità.The Dirty Black Bag, non dimentica il corollario di passioni elementari che cementano il westerne e ‘sentimentalizza’ Sergio Leone (già nelle prime due puntate abbondano sotto-trame amorose e batticuori familiari) con punte, però, più ciniche, più insanguinate, più incredulite che volentieri scivolano nello splatter: Red Bill ha imparato a sparare dal Biondo, ma preferisce uccidere sgozzando teste da accatastare nella sacca che sgocciola ovunque; lo sceriffo Arthur non esita a fare fuori un fanciullo ficcanaso; il sangue dipinge spesso i muri cotti dal sole; il capraio Butler, si diverte ad avvelenare e poi appendere a un gancio le vittime, per godersi la loro agonia.
L’ottima polifonia introspettiva di Aragoni e O’ Malley inciampa, però, nella polverosa visione fallocentrica che domina la città: le donne, etere o madri che siano (per ora), sono posizionate socialmente da necessità e valori maschili. Pensano e vivono in funzione dei desiderata degli uomini. E quando reclamano (come prova a fare Eve) una loro indipendenza, non sfondano mai il recinto dei valori maschilisti, che, dunque, senza volerlo finiscono per confermare e rafforzare.
Come se la polvere che ricopre la città non fosse solo metaforica ma anche ‘archelogica’ di una visione sussidiaria del femminile ancora in vita.
Ma la storia è ai primi passi e il crescendo adrenalinico delle restanti sei puntate intravisto dal teaser sembra avere tutte le carte in regola per ribaltare lo stereotipo di partenza.