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Judy Garland
Nella mia fine, il mio principio: le storie maledette delle grandi star del cinema. Che resteranno per sempre giovani.
Coraggio, cuore, cervello.
Ne abbiamo tutti bisogno. A vagonate.
Per questo, ogni volta che vedo Il mago di Oz, cambio idea e in base al momento sono il Leone spaventatissimo che vorrebbe più coraggio, oppure divento lo Spaventapasseri, perché essere più intelligente mi toglierebbe da parecchi guai. Più spesso, mi sento stanca come l’Uomo di latta e vorrei ripulirmi il cuore, cambiandolo con uno nuovo. Ovviamente, anche senza rivedere il film, almeno una volta al mese sono Dorothy trasportata dal tornado e sbatto tre volte i tacchi delle mie scarpe ripetendo “There’s no place like home”.
Quando è uscito il film, dire “sono un amico di Dorothy” significava dire “sono gay”, perché il mondo di Oz era per le anime emarginate e piene di colore.
Eppure Judy Garland, che ci ha aiutato a ritrovare cuore, coraggio e cervello, nella vita non è stata così fortunata: nessuna strega buona del Nord sul suo cammino, niente scarpette rosse che ti fanno riconoscere la strada. Ma in compenso, molti mariti: cinque per la precisione, che non sono stati utili però a migliorare la sua felicità. A un medico che le chiede, verso la fine della sua vita, quali farmaci stia assumendo per la depressione, lei risponde: “cinque mariti, e non sono serviti”.
Ma cominciamo dall’inizio e andiamo in Minnesota, dove Frances Ethel Gumm, che poi diventerà Judy Garland, nasce a Grand Rapids, nel 1922. I suoi genitori sono attori del vaudeville, dunque Frances e le sue sorelle nascono con il palcoscenico nel DNA. Il trio canoro delle Gumm sisters passa dai teatri di provincia ai film musicali, ma è Frances la supernova delle sorelle. Nel 1934 viene infatti pescata da un talent-scout della Metro-Goldwyn-Mayer che le cambia nome in Judy Garland e le predice un futuro arcobaleno.
La profezia si rivela presto esatta: a 17 anni Judy viene scelta come protagonista del musical Il mago di Oz, ma quella che noi conosciamo come una fiaba in Technicolor, per Judy è stato un incubo psichedelico. Molestie sessuali (durante le riprese, i nani che interpretavano i Mastichini le infilavano le mani ovunque), party scellerati a base di alcool e sesso a cui Judy veniva invitata, medici che le prescrivevano anfetamine per non ingrassare e per reggere gli orari allucinanti sul set. Judy porta a casa un Oscar giovanile e la dipendenza dagli psicofarmaci, che le rimarrà incollata addosso per tutta la vita.
La nuova diva della MGM inizia anche la sua carriera matrimoniale, e parte subito male: a 19 anni si sposa con un musicista e arriva il primo aborto voluto dagli Studios e della madre: la loro fabbrica di denaro non può fermarsi per mettere al mondo un figlio.
Archiviato il matrimonio, Judy nel 1944 incontra Vincente Minnelli sul set di Incontriamoci a St. Louis. Nasce la figlia Liza, ma il fatto di scoprire il marito a letto con il giardiniere non aiuta l’unione, e Judy si avvia verso il secondo divorzio con un esaurimento nervoso, depressione e attacchi di panico. È sfinita: “non ce la faccio ad andare avanti” dice, ma intorno ha solo persone preoccupate di non vedere inficiato il loro fatturato. I tentativi di suicidio vengono silenziati e il suo viso sullo schermo non smette mai di sorridere mentre lei gorgheggia di amori, felicità e arcobaleni. Eppure, racconterà “Prendevo qualsiasi cosa: alcol, medicine, droghe, qualsiasi cosa mi permettesse di tornare sul set a cantare e sorridere, cantare e sorridere”.
Tra un ricovero e l’altro, Judy balla con Fred Astaire in Ti amavo senza saperlo e si risposa una terza volta con un giocatore d’azzardo impegnato a perdere i soldi che lei guadagna. Nascono altri due figli, e la luce di Judy al cinema brilla sempre più fiocamente: abbandona le riprese senza riuscire a ultimare i film, la MGM la licenzia, lei beve principalmente calmanti, e inghiotte quasi esclusivamente pillole. Il suo ultimo grande successo è con È nata una stella di George Cukor, nel frattempo continua a sposarsi e divorziare: la quarta volta ha il solo pregio di durare pochissimo, sei mesi per scoprire (di nuovo) l’omosessualità del marito.
“Se vuoi la celebrità, devi pagare un prezzo e io certo l’ho pagato. Devi saper ridere di tutto, soprattutto di te stessa. Io rido sempre di me. Devo essere una persona molto divertente con cui vivere” dice Judy, che ormai guadagna con la tv e i concerti dal vivo. L’esibizione alla Carnegie Hall del 1961 è leggendaria: quando Judy ha un microfono in mano è strepitosa, il suo problema è quando glielo tolgono, e lei deve cavarsela nella vita di tutti i giorni. Lì è un vacillare e crollare, Liza le salva letteralmente la vita più volte, ma non sarà sufficiente.
“Ognuno ha dei problemi. Voglio solo quello che vogliono tutti, una famiglia, essere felice, ma per me è più difficile”. Judy non si arrende, e si riposa per la quinta volta. A questo giro sceglie un manager di un night club, a tempo perso spacciatore. Prima di dire un’altra volta “sì, lo voglio”, Judy afferma: “sono sicura. Non si può sbagliare cinque volte di seguito”, eppure nemmeno a questo giro le cose andranno brillantemente. Non fa però in tempo a divorziare: a 47 anni – il 22 giugno del 1969 – è il quinto marito a trovarla senza vita per un’overdose “accidentale” di barbiturici nel bagno del suo appartamento londinese.
Al suo funerale partecipano 22.000 persone, e tutte insieme cantano le parole che Judy conosceva bene: “da qualche parte, oltre l'arcobaleno, il cielo è azzurro e i sogni impossibili diventano realtà”.