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Frances Farmer (Annex)
Nella mia fine, il mio principio: le storie maledette delle grandi star del cinema. Che resteranno per sempre giovani.
1993, esce l’album In Utero dei Nirvana. Kurt Cobain è uno dei ragazzi più popolari sulla terra, cosa che gli fa piuttosto schifo.
Sono molte le cose – e le persone – che non gli piacciono, ma ogni tanto intercetta qualcuno da amare profondamente, e a cui dedicare una canzone. Frances Farmer will have her revenge on Seattle è stata scritta da Kurt per l’attrice nata a Seattle, come lui, e con una vita disgraziatissima come sarà quella di Cobain (che in più la batterà sul tempo con un’uscita di scena clamorosa).
A lei che gli ha regalato anche il nome con cui chiamare la figlia Frances Bean, avuta con Courtney Love, augura di tornare per bruciare tutti i bugiardi.
Frances Farmer io l’ho conosciuta da ragazzina, quando ho visto in tv il film con Jessica Lange che porta nel titolo il nome di battesimo di Farmer, e tutta la sua sventura. Ricordo questa furia biondissima che urla in faccia al giudice “Hai mai avuto il cuore spezzato?”, dopo avergli lanciato in faccia un calamaio. Lui l’ha appena condannata a 180 giorni di carcere, e lei viene trascinata in cella con la camicia di forza. È bellissima anche così, mentre scalcia e grida davanti ai flash dei fotografi, e io sono certa che ululi d’amore tradito, ma prima ancora di mariti inadatti e banalmente crudeli, c’è l’amore efferato di chi ti dovrebbe per prima contenere, ma ti distrugge.
Così sono andata a ritroso, ho unito i puntini fino ad arrivare alla madre che l’ha generata il 19 settembre del 1913, e poi devastata.
L’infanzia di Frances è simile a quella di molti: genitori separati, parecchi traslochi, gli strappi di non sentirsi mai parte di qualcosa. Cresce bella da far paura, si veste con abiti maschili, gioca a hockey, recita nel gruppo teatrale della scuola e, all’ultimo anno di liceo, vince un concorso di scrittura con il suo saggio God dies.
Il primo premio consiste in 100 dollari e il disprezzo del vicinato assicurato per questa ragazzina atea che, come se non bastasse, diventa anche comunista. Farmer vince infatti un altro concorso che prevede un viaggio in Unione Sovietica. Quando entra per la prima volta nel teatro di Mosca, ha la certezza di volere calcare molti altri palchi, nella sua vita: per questo punta dritta verso New York, per studiare recitazione. Non fa in tempo ad atterrare in America che Hollywood la pesca come un cigno di plastica al Luna Park: la Paramount le offre un contratto di sette anni, che lei firma il giorno del suo 22esimo compleanno.
Sembra tutto incredibilmente facile per questa ragazza luminosa che la critica definisce “la nuova Garbo”, dopo il successo di Ambizione. Macina successi ma qualcosa, in lei, vibra guai. Frances dovrebbe divertirsi da matti e andare alle feste sparpagliando lustrini e capricci come fanno le dive, eppure tutto questo a lei (come accadrà poi a Kurt) non piace.
Così continua a vestirsi come le pare e litiga con registi e produttori rivendicando ruoli in cui la sua bellezza non sia determinante: non vuole interpretare la svenevole creatura bisognosa d’aiuto. Disprezza anche l’attore di moda e vanitoso che i produttori e la madre le hanno vivamente consigliato di sposare, per consolidare la sua carriera. Per non soffocare in mezzo a tutta questa ipocrisia ricomincia con il teatro: i suoi successi cinematografici le spalancano le porte dell’Actor’s Studio e anche quelle della camera da letto di Clifford Odets, il drammaturgo ovviamente sposato che sfrutta la fama di Frances per dare lustro alla pièce che sta scrivendo, e poi la scarica.
Lei Odets lo amava davvero, e se vogliamo trovare un inizio dell’inferno per Frances, lo possiamo collocare in questo momento, in cui miscela cocktail di anfetamine e alcool per sopportare l’angoscia che la sta spappolando. È il 1942, la Paramount le cancella il contratto e la guerra deflagra fuori e anche dentro di lei.
Una notte viene fermata dalla polizia mentre guida molto ubriaca, senza patente e con gli abbaglianti accesi in una zona in cui c’è l’obbligo del buio assoluto. Al poliziotto che le sta facendo l’elenco di tutte le infrazioni commesse, risponde “mi annoi” e sgomma via.
Le denunce si moltiplicano – compresa quella di una parrucchiera a cui Frances sloga la mandibola, lanciandole contro una spazzola per capelli – e la prigione diventa l’anticamera dei reparti psichiatrici in cui Farmer verrà trascinata secondo il volere della madre, che ha ottenuto la sua tutela legale.
Per “guarirla” da una psicosi maniaco depressiva le somministrano per mesi dosi d’insulina che le provocano ripetute cadute in coma, poi l’idroterapia in acqua gelata e infine l’elettroshock. Frances tenta la fuga, così nel 1945 la madre chiede che venga internata nel manicomio del Western State Hospital. Ci rimarrà 5 anni.
“Schizofrenia paranoica”, stabiliscono i medici, e le cure per Frances contemplano anche una serie di mostruosità che lei documenterà registrando delle audiocassette per il libro Will There Be a Morning?, che verrà pubblicato postumo. Racconterà di essere stata la schiava sessuale di medici e inservienti e di aver trascorso giorni e notti incatenata, mentre non farà accenno alla lobotomia che si vocifera abbia subito.
La vita dopo il manicomio riprende con fatica per Frances, che trova lavoro nella lavanderia del Fairmont Olympic Hotel, lo stesso dove alloggiava quando Hollywood era ai suoi piedi. Si risposa, due volte, ma i matrimoni durano pochissimo e timidamente riprende anche le apparizioni in tv: tutti vogliono vedere “l’attrice lobotomizzata”, si aspettano scenate epiche, ma si ritrovano davanti agli occhi solo una signora molto educata, e ancora più stanca.
L’alcolismo la divora da dentro e Frances muore di cancro all’esofago a 57 anni, il 1° agosto del 1970. E io aspetto che si realizzino le parole che Kurt profetizzava: “She'll come back as fire/To burn all the liars/Leave a blanket of ash on the ground”.