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Alessandro Usai
“Per otto anni abbiamo prodotto due film l’anno, uno a semestre, e tutto sommato campavamo bene. Ora in due mesi, novembre 2022 – gennaio 2023, abbiamo fatto uscire cinque prodotti: attualmente l’apparato della produzione cine-audiovisiva – film, serie, fiction, ovvero prodotti realizzati partendo da una sceneggiatura – è a piena occupazione. È un momento di boom anche sostenuto da politiche importanti di sostegno pubblico da parte dello Stato, che ha investito milioni di euro nel settore. Probabilmente è una bolla, ma prima che si sgonfierà magari ci vorranno 3 o 4 anni”.
L’ad del Gruppo Colorado Film Alessandro Usai è stato protagonista del primo appuntamento 2023 di “Cinematografo Incontra”, il format della Rivista del Cinematografo pensato per addetti ai lavori, studenti e appassionati di cinema e serialità, nella cornice della storica sede romana dell’Università LUMSA, grazie alla collaborazione della Prof.ssa Paola Dalla Torre che ha ospitato l’incontro all’interno del corso di laurea in Scienze della comunicazione, marketing e digital media - Insegnamento 'Storytelling e linguaggi multimediali'.
Moderato da Robert Bernocchi, (autore per Cinematografo della newsletter “Una modesta proposta”), l’incontro ha fatto luce su vari aspetti delle ultime produzioni Colorado – Il mammone (a novembre su Sky), Il mio nome è vendetta (su Netflix), Natale a tutti i costi (Netflix) e le due uscite in sala, Tre di troppo e Me contro te – Missione giungla, i due titoli italiani che hanno incassato di più in questo inizio 2023: “Il nostro obiettivo primario non è quello di avere una buona recensione sul Corriere della Sera o andare nella sezione Panorama della Berlinale, il nostro core-business è raggiungere lo spettatore. Facciamo prodotti commerciali, quelli cioè che la gente paga per vedere”, spiega Usai, che proprio 20 anni fa iniziava la sua carriera nel cinema dapprima a Cinecittà, poi in Mikado Film, ora dal 2010 nella società fondata da Maurizio Totti, la Colorado appunto, dal 2017 entrata nel gruppo Rainbow, presieduto da Iginio Straffi.
“La prima cosa che conta è il concept di ogni film, il pitch: in pochissimi minuti bisogna saper raccontare il prodotto, se fai fatica a raccontarlo è facile che quel film abbia un problema. L’ingaggio della storia deve essere molto chiaro per funzionare. Se il pitch non funziona in 60 secondi, non funzioneranno neanche i 60 secondi del trailer”. Il mammone e Natale a tutti i costi sono due remake: “Quando ero in Mikado mi capitava spesso di girare il mondo per acquistare film da distribuire poi sul territorio italiano. Vedevo commedie che avevano grandi potenzialità ma che in Italia non avrebbero funzionato perché non c’era il cast che qui avrebbe fatto presa. Quando sono arrivato in Colorado ho pensato che se l’idea fosse forte e l’avessimo adattata al nostro paese forse poteva funzionare. Non ho nessun pudore sui remake, in fondo è come adattare a teatro Goldoni, Shakespeare o via dicendo, si parte ovviamente da quanto possa essere interessante il testo originale di partenza”.
Diverso il caso di Il mio nome è vendetta, diretto da Cosimo Gomez e interpretato da Alessandro Gassmann, disponibile su Netflix dallo scorso 30 novembre: “Questa è una storia completamente diversa, che nasce però sempre con la parola chiave dell’intrattenimento. Non c’è una regola, quello che cerco di fare è pensarmi spettatore, capire cosa potrebbe interessarmi e che cosa il cinema italiano non fa. Perché ci sono dei generi, dei sottogeneri di film che hanno sempre funzionato commercialmente e il cinema italiano non li fa più? Il mio nome è vendetta è un action, sottogenere revenge-movie: da Commando a Taken, da Man on Fire a John Wick, le coordinate sono sempre le stesse. Con gli sceneggiatori lo abbiamo un po’ studiato a tavolino, a me l’idea che il protagonista fosse un ex agente, un ex carabiniere non piaceva. Quindi abbiamo pensato alla figura di un ex criminale: non un remake dunque, ma abbiamo traslato da una tradizione americana molto solida”.
Risultato: “70 milioni di utenti lo hanno visto nel mondo, il film è al nono posto della top ten (entro la quale è da nove settimane consecutive) dei film non in lingua inglese più visti di sempre su Netflix (il secondo film italiano ha raggiunto i 30 milioni di utenti). La spiegazione che ci siamo dati è che potrebbe trattarsi di un classico, tra virgolette, non particolarmente originale, non particolarmente sorprendente, facile però da vendere”.
Facile da vendere e, dati i numeri raggiunti, facile da trasformare in franchise: “Siamo già al lavoro sul prequel e sul sequel del film, gireremo in estate e verosimilmente arriverà su Netflix ad inizio 2025”.
Ma che cosa cambia a livello produttivo quando l’approdo per un film è la piattaforma? “Sono modelli di business diversi, a partire dai flussi economici: lavorare per la tv prima delle piattaforme era lo stesso modello di business, unico committente che ti paga l’opera, tu guadagni nel momento in cui la realizzi. Non vengo però chiamato per realizzare un’opera ideata da altri, ma ideata da me. Il processo produttivo non cambia molto, cambia invece come devi pensare il prodotto. Per Netflix i primi minuti sono fondamentali perché sono quelli che ingaggiano lo spettatore, mentre per il cinema in sala è più importante il finale, perché difficilmente lo spettatore andrà via dopo pochi minuti. Quello che conta è quello che penserà o dirà alla fine del film, all’uscita della sala”.
Da un punto di vista “adrenalinico” però, “l’uscita in sala e l’approdo in piattaforma per un produttore non sono paragonabili: da Netflix ti dicono che dopo 10 giorni ti chiameranno per dirti come sta andando il prodotto, mentre con l’uscita in sala ogni giorno attraverso il Cinetel hai il quadro di come sta andando il tuo film. In termini di guadagno, sulle piattaforme se il prodotto funziona è facile che quel prodotto sia il primo di una serie, come nel caso de Il mio nome è vendetta, mentre il guadagno dall’uscita in sala è diretto, quei soldi che il film incassa vanno in tasca al produttore”.
E veniamo quindi ai casi Tre di troppo, di e con Fabio De Luigi, e Me contro te – Missione giungla, entrambi con circa 4,7 milioni di euro incassati al botteghino: “Per quanto riguarda il film di De Luigi abbiamo proseguito in un discorso iniziato qualche anno fa con Dieci giorni senza mamma, sempre con De Luigi protagonista, ovvero riproporre un modello di commedia per tutta la famiglia, filone anche questo abbastanza sparito dai radar dell’attuale produzione italiana. La questione dei Me contro te è diversa, ovviamente, figlia però di un ragionamento: tutti i grandi mattatori del cinema popolare venivano dalla televisione, penso ai vari Verdone e Troisi prima, agli Albanese e Cortellesi poi, arrivando fino a Checco Zalone, tutta gente che era partita dal teatro, dal cabaret, esplosa poi in televisione. Maturato il successo venivano presi dal cinema e declinavano quel successo sul grande schermo. Questo serbatoio non esiste più, perché è quasi sparito del tutto l’intrattenimento leggero dalla tv, mangiato dai reality o da altro, motivo per cui ancora oggi al cinema chi fa grandi numeri sono Aldo, Giovanni e Giacomo o Ficarra & Picone e via dicendo. Credo quindi che dai nuovi media potrebbero arrivare delle nuove leve, ma hanno una grammatica completamente diversa, a partire da trovate e sketch che durano una manciata di minuti e che non è facile restituire poi sul grande schermo. Dov’è la difficoltà? È nel riuscire a trasferire quell’enorme seguito che hanno sul mezzo digitale su un altro media: anni fa iniziammo con Fuga di cervelli, quando nel 2011 Frank Matano era diventato lo youtuber più popolare tra i ragazzi, facendo numeri mostruosi. Quindi facendo commedia demenziale per ragazzi andammo a prendere chi faceva sketch demenziali su YouTube. Poi affiancammo Frank a Bisio per un altro film (Ma che bella sorpresa, 2015, ndr) e Sky successivamente li prese per fare Italia’s Got Talent. La difficoltà dei Me contro Te è che il pubblico è quello dei piccolissimi, target che va dai 4 agli 8 anni. Ma da genitore, e lo dico per esperienza personale, dire di no a un bambino di 5 anni è quasi impossibile”.
E a chi, tra i ragazzi presenti e collegati in streaming, gli chiede se non è avvilente per la professione dell’attore che sul grande schermo finiscano fenomeni social, Usai risponde: “Dipende dal prodotto, se quello che fai non prevede come primo requisito la qualità recitativa come punto di forza. De Laurentiis si è comprato il Napoli facendo 20 anni di cine-panettoni, poi certo se l’obiettivo che hai è andare a Cannes il discorso cambia. Se qualcuno è capace di comunicare su YouTube e parlare a milioni di persone non può essere casuale. Il cinema non genera più star, ormai vengono da altri mondi, uno dei problemi che abbiamo è quello di non avere gente che attira persone in sala”.
Ma è solo questo il problema dello scarso afflusso al cinema? “La sala deve ridiventare luogo attrattivo rispetto alle alternative che ha, soprattutto dal punto di vista fisico, per sfidare la comodità del tuo divano. L’altro tema è che il prodotto medio la gente se lo vede in televisione: non ha abbastanza forza per uscire di casa. Alcune commediole sono film che oggi farebbero fatica a convincere la gente ad uscire. Il nuovo Avatar ha fatto 45 milioni di euro, un numero clamoroso considerate le difficoltà attuali: la gente ha percepito che fosse un evento che non poteva non fruire in sala. Un prodotto per funzionare deve quindi avere caratteristiche di unicità, che ti convincano allo sforzo di raggiungere la sala e sentirti parte di qualcosa che non puoi non aver visto”.
Dopo i remake, le rielaborazioni di sottogeneri poco battuti dal cinema italiano e il fenomeno Me contro te, Colorado tenta ora la strada dell’adattamento da un bestseller letterario, Fabbricante di lacrime (Salani Editore) di Erin Doom (pseudonimo di una scrittrice molto amata tra i giovanissimi), vero e proprio caso editoriale degli ultimi anni: “Si tratta del libro più venduto per quello che riguarda il target teen, oltre mezzo milione di copie cartacee e milioni di download per la versione e-book. Sono letteralmente subissato dalle proposte dei vari player che lo vogliono distribuire e francamente non so ancora a chi poi lo affideremo. Iniziamo a girare il film il prossimo lunedì, il nome del regista non l’abbiamo ancora annunciato e per quello che riguarda il cast vogliamo fare un tentativo particolare: sono tutti attori alla prima esperienza, italiani dal look anglosassone, proprio per rispettare la scelta del romanzo, ambientando la storia in una sorta di non luogo. Usciremo quindi, verosimilmente il prossimo settembre/ottobre, con un film dove non ci sarà neanche una faccia riconoscibile, in primo luogo perché non vogliamo che i lettori associno volti già visti in altre circostanze, in seconda battuta perché la speranza è quella di creare due star, come accaduto anni fa con il fenomeno Scamarcio per Tre metri sopra il cielo. E fare poi con loro un percorso che sarebbe impossibile organizzare con attori già famosi e quindi già impegnati in altri mille progetti”.
A chi invece gli chiede come sia possibile che un grande regista come Francis Ford Coppola non riesca a trovare i fondi necessari per realizzare il suo Megalopolis, progetto che cova da oltre 20 anni, Usai dapprima svela: “Coppola mi parlò di Megalopis nel 2004, quando ero ancora a Cinecittà” e poi spiega: “Negli ultimi anni ha fatto fatica a trovare le risorse per fare film nuovi, in America è molto più difficile che da noi perché non esistono i soldi pubblici come qui. Lì è industria a tutti gli effetti, paragonabile allo sport. Se Coppola fosse un regista italiano probabilmente lo finanzierebbe lo Stato. Ogni anno vengono prodotti in Italia 240 film l’anno col sostegno pubblico: il 40% te lo dà il tax credit, il restante 60% sono contributi selettivi del Ministero e l’apporto di Rai Cinema. La maggioranza del prodotto italiano viene realizzata così. Verranno fuori ogni volta 5-6 opere geniali, altre ahimè sono destinate al dimenticatoio”.