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Green Border (credits: Agata Kubis)
Quando la famiglia siriana di Green Border (siamo nel 2021), genitori, figli, nonno compreso in viaggio verso la Svezia, e una indimenticabile, sconcertata intellettuale afgana, finiscono nella trappola del respingimento a loop tra Bielorussia e Polonia, al confine non c'era ancora il muro, quel muro d'acciaio, 186 chilometri per cinque metri d'altezza, che il 15 ottobre è stato sottoposto a referendum, come decretato a maggioranza dal parlamento del primo ministro Mateusz Morawiecki, di fatto un richiamo al voto contro la politica europea sull'immigrazione (d'accordo, dov'è la politica europea sull'immigrazione? Ma questo è un altro discorso).
A tenere il gruppo, e centinaia di migranti, nel crudele limbo di sterpi e boschi, tra fame, freddo, vessazioni, ferite e indifferenza, c'è “soltanto” un enorme filo spinato sorvegliato da soldati che corrono avanti e indietro sui sentieri e scaraventano corpi e cose oltre lo spinato, nell'aldilà del diritto (leggi precise enunciate dai personaggi), aldilà della civiltà e dell'umanità, ingaggiando con i bielorussi uno spietato rimbalzo.
Una sceneggiatura tripartita a piani combinati, perno forte del film, intreccia le linee del conflitto: la resistenza disperata dei rifugiati respinti, reclamanti una giustizia in una terra di nessuno dove vengono picchiati, derubati, vittime delle paludi; l'accanimento repressivo del potere militare da cui si stacca la vicenda di una guardia di frontiera nelle contraddizioni tra disciplina, violenza e vita affettiva; l'azione clandestina delle organizzazioni di soccorso, con la vicenda di una psicologa coinvolta da attivisti nel pericoloso sostegno ai migranti abbandonati nell'enclave di frontiera dove non c'è copertura di rete e anche i medici non possono entrare.
Nel bianco e nero a forte contrasto plastico, scelta azzeccata per quanto riesce a concentrare un “sentimento visuale” di opposizioni, schieramenti e settarismo, Holland gioca una pertinenza d'azione drammatica a forte scossa emotiva (ogni passaggio è seguito nel suo sviluppo angoscioso), e questo potrebbe essere a tratti un carico di intensità, ma sarebbe uno sguardo superficiale su un progetto dove il senza-tregua è costantemente motivato dalla coerenza dei fatti e la “quantità” di film (le due ore e mezza) porta la quantità di azione.
Nel cinema di denuncia e ricostruzione storica di Agnieszka Holland, a risultati alterni in quasi cinquant'anni di lavoro, qualche squilibrio verso l'effetto per rifornire l'emozione è ormai accreditato, e non solo nella sua filmografia hollywoodiana (Washington Square, Io e Beethoven o Poeti dall’inferno con DiCaprio). Dopo l'esordio con Attori di provincia, affinato alla scuola di Wajda e Zanussi a fine anni '70, l'invettiva contro la dittatura macchiata dal sangue del leader di Solidarnosc Popieluszko (Un prete da uccidere, 1984), con un divo del tempo come Ed Harris, sbordava nel manicheismo, bene e male, nonostante le buone intenzioni e la risposta necessaria alla violenza della presidenza Jaruzelski, ma si sa come va a finire quando la rabbia fa la sorella esagitata dell'indignazione, mentre restano efficaci, ancora convincenti, l'avventura dell'ebreo errante tra stalinisti e nazisti di Europa Europa (1991) e, soprattutto, la sopravvivenza degli ebrei nascosti nelle fogne di Varsavia di In Darkness (2011)
Holland, che ha lavorato anche per le serie HBO, rappresenta bene in fondo certe tensioni e sbilanciamenti di autori dell'est sovietico transfughi prima della caduta del Muro, con un piede nella cultura libera europea e un altro nel cinema americano (Skolimowski, Szabo). Tornata da qualche tempo a produrre in Polonia presenta il conto e, anzi, combatte. Ebbene, è contro quel muro, contro quel referendum anche, che si muove questa cronaca del maledetto “confine verde” con una estrema chiarezza di ragioni, metodi, dinamiche.
Nelle scorse settimane, dopo il premio alla Mostra di Venezia, il governo di Morawiecki ha fatto a pezzi la regista, paragonando il risultato a una “propaganda nazista” e brandendo la vicenda come esempio del pericolo dei rifugiati. Il presidente Duda ha invitato alla diserzione del film, aggiungendo lo slogan “solo i porci siedono al cinema”. Il ministro degli interni ha imposto alla proiezione un video che smentisca il film. Molte ambasce quindi per l'uscita in Polonia, che al contrario è stata un successo. E questa pare davvero una cosa speciale, perché il film della Holland, già nelle scelte formali, non lascia tregua alla responsabilità.
Inevitabile, nella contestuale partecipazione alla Mostra, nel binomio dei premi e poi con l'uscita in sala, e nella evidente simmetria dell'azione, un confronto di risultanza con Io capitano di Matteo Garrone, scandito dall'estetica di un road-movie picaresco dove ogni passaggio esatto, “vero”, torna quasi sempre, però, al conforto dell'avventura, dove la sofferenza, già a partire dalle motivazioni generiche dei protagonisti, è la proiezione di una distanza, di uno scarto protetto della nostra vita, nella simile schermatura del flusso televisivo (anche per scelte formali evidenti).
Utile chiedersi perché un successo (e non dispiace da un certo punto di vista, sia chiaro). Perché l'ampio consenso. Perché la potenziale, “eroica”, soddisfatta, identificazione col migrante, per un racconto di migrazione fondato su personaggi di natura dickensiana, sulla peripezia a tensione fiabesca e sull'avventura del miraggio e della conquista, in una sofferenza scalettata a conclusione trionfale. Il dolore, la precarietà, sono in realtà i legami forti dell'umano senza i quali il destino è lo scontro. Se non senti, non agisci. Quando quel dolore, quella precarietà, non entrano, non hanno accesso nel sistema di difese individuale, si va al rifiuto dell'altro. Noi europei siamo civili. Quando non rifiutiamo, ci identifichiamo, ci identifichiamo molto. Ci purifichiamo. E a casa torniamo.