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Salvatore Piscicelli sul set di Regina con Fabrizio Bentivoglio e Ida Di Benedetto
Dire che Salvatore Piscicelli mancherà al cinema (italiano) è una beffa, perché per molto tempo il cinema italiano ha scelto di fare a meno di questo grande regista, morto ieri a Roma all'età di 76 anni nel momento in cui stava ritrovando una piccola eco grazie a un’antologia di saggi a lui dedicata, La magnifica ossessione (lo pubblica la casa editrice Martin Eden). Piscicelli non è stato solo un grande regista: nella sua avventura umana e artistica, dirompente quanto discontinua suo – e nostro – malgrado, c’è il segno dei pionieri, giacché del cinema italiano tutto l’autore di Pomigliano d’Arco (dove nacque nel 1948) è stato davvero precursore, in quella fase tra gli anni di piombo e quelli da bere, in bilico tra antropologia sociale e melodramma popolare, strenuamente cinefilo nella misura in cui i suoi film nutrono di quelli che ha amato e studiato.
Giovane critico militante, all’inizio Piscicelli sceglie quello che oggi chiameremmo il cinema del reale: La canzone di Zeza (1976) scava nel mondo rurale campano, mette in scena una cantata popolare durante quel Carnevale che segna il passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo e, in parallelo, il rituale del passaggio stagionale della civiltà contadina. I personaggi femminili sono interpretati dagli uomini, un gruppo di disoccupati resistenti si prestano a fare gli attori, le maschere tradizionali rappresentano l’identità arcaica.
Ma è quando irrompe nella finzione che Piscicelli fa tremare i polsi: Immacolata e Concetta, l’altra gelosia (1980) è un capolavoro autentico, bruno e maledetto, premiato a Locarno e considerato perfino dalla nostra critica dell’epoca. Negli anni in cui Mario Merola spadroneggia nelle sale di periferia con i vari Zappatore e Carcerato, Piscicelli fa un’operazione intellettuale e al contempo romantica leggendo la tradizionale sceneggiata napoletana alla luce di Rainer Werner Fassbinder, che proprio in quel periodo “rifonda” il mélo tra lacrime amare e anni di tredici lune. Come ha spiegato lui stesso in un editoriale per Film Tv: “Se il cinema è imitazione della vita lo è nel doppio senso della parola: riprodurre con la maggiore approssimazione possibile, ma anche contraffare, simulare”.
Immacolata e Concetta è un film essenziale, stilizzato, scarno, spigoloso, severo e allo stesso tempo lancinante e struggente, che mette al centro l’amore disperato e tragico tra due donne che si consuma in luoghi sudici e miserabili, evitando come principio di focalizzarsi sullo scandalo lesbico e concentrandosi piuttosto sulla gelosia, tra tammurriate scatenate e una carica erotica espressa attraverso ciò che non si vede. E Piscicelli trova le sue prime antieroine, un po’ madonne laiche e un po’ puttane sante: Ida Di Benedetto, reduce dall’esperienza con Werner Schroeter, regina del regno di Napoli che lo segue in molte avventure, e Marcella Michelangeli, icona maledetta del nostro cinema meno pop, qui fredda ed estrema.
A poco più di trent’anni, Piscicelli – che in tutto il suo percorso lavora con Carla Apuzzo, compagna di vita oltre che professionale – è nome di punta di un cinema giovane e ribelle, e con l’opera seconda viene invitato in Concorso nell’allora rinascente Mostra di Venezia firmata Carlo Lizzani: Le occasioni di Rosa (1981), autoprodotto e libero da ogni vincolo commerciale, è un altro memorabile ritratto fassbinderiano, un melodramma en plein air calato nella Napoli industriale che rivela la clamorosa Marina Suma, ragiona ancora una volta sui meccanismi della gelosia e del possesso, lavora sulle luci naturali per ricercare la purezza perduta. Se ne accorgono ai David di Donatello, che per l’unica volta in più di quarant’anni concedono a Piscicelli una candidatura come miglior regista.
Piscicelli piomba nel cinema italiano un minuto prima della new wave napoletana, in contemporanea con i primi album di Pino Daniele e i primi film di Massimo Troisi (Ricomincio da tre e Le occasioni Rosa sono davvero film paralleli), i vesuviani arrivati dopo di lui lo celebrano quale maestro, da Mario Martone a Pappi Corsicato fino a Paolo Sorrentino. Una stima dovuta al coraggio di questo regista che ha strappato la cartolina oleografica, preso di petto la retorica campanilistica, abbracciato il dissenso per leggere meglio l’anima e il paesaggio della città. E, forse, anche alla sfortuna commerciale e alla marginalità nell’industria: l’occasione di Blues metropolitano (1985), che racconta la Napoli centrale tra fermenti musicali e dipendenze dilaganti sulle note dei cantori dell’epoca (Pino Daniele, Tullio De Piscopo, Tony Esposito), non incontra il pubblico; Regina (1987) in gloria della presenza e del carisma della fedele Di Benedetto, è pura verifica incerta melodrammatica in un radicale bianco e nero; Baby Gang (1992) recupera la matrice neorealista con attori non professionisti e realismo sociale.
Ed è avvilente che questa lateralità sia capitata a un autore capace di costruire un film come Il corpo dell’anima (1999), naturalmente indipendente e racchiuso da Emil Cioran (“Ciò che non si può tradurre in termini di misticismo mai merita di essere vissuto”), storia erotica e spirituale tra uno sceneggiatore decaduto (Roberto Herlitzka) e una cameriera (Raffaella Ponzo) che esprime ancora una volta un’idea di cinema forte, senza compromessi, stilizzato e vivido. E capace di sperimentare le teorie del Dogma 95 con Quartetto (2001) e innestare interpreti pop in un certo modo di fare film con Alla fine della notte (2003).
Piscicelli ci lascia un ultimo film clamoroso, ancora incardinato su un singolare femminile non incasellabile e periferico nel suo trascendere i margini: la titolare (cioè una straordinaria Luisa Ranieri) del low budget Vita segreta di Maria Capasso (2019), ascesa criminale e avventura urbanistica dentro un mélo spudorato che è anche un noir luminoso e fa di tutto per non farsi piacere. Si dice spesso, di chi se ne va, che avrebbe meritato di più: nel caso di Piscicelli è vero.