Dire che Salvatore Piscicelli mancherà al cinema (italiano) è una beffa, perché per molto tempo il cinema italiano ha scelto di fare a meno di questo grande regista, morto ieri a Roma all'età di 76 anni nel momento in cui stava ritrovando una piccola eco grazie a un’antologia di saggi a lui dedicata, La magnifica ossessione (lo pubblica la casa editrice Martin Eden). Piscicelli non è stato solo un grande regista: nella sua avventura umana e artistica, dirompente quanto discontinua suo – e nostro – malgrado, c’è il segno dei pionieri, giacché del cinema italiano tutto l’autore di Pomigliano d’Arco (dove nacque nel 1948) è stato davvero precursore, in quella fase tra gli anni di piombo e quelli da bere, in bilico tra antropologia sociale e melodramma popolare, strenuamente cinefilo nella misura in cui i suoi film nutrono di quelli che ha amato e studiato.

Giovane critico militante, all’inizio Piscicelli sceglie quello che oggi chiameremmo il cinema del reale: La canzone di Zeza (1976) scava nel mondo rurale campano, mette in scena una cantata popolare durante quel Carnevale che segna il passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo e, in parallelo, il rituale del passaggio stagionale della civiltà contadina. I personaggi femminili sono interpretati dagli uomini, un gruppo di disoccupati resistenti si prestano a fare gli attori, le maschere tradizionali rappresentano l’identità arcaica.

Ma è quando irrompe nella finzione che Piscicelli fa tremare i polsi: Immacolata e Concetta, l’altra gelosia (1980) è un capolavoro autentico, bruno e maledetto, premiato a Locarno e considerato perfino dalla nostra critica dell’epoca. Negli anni in cui Mario Merola spadroneggia nelle sale di periferia con i vari Zappatore e Carcerato, Piscicelli fa un’operazione intellettuale e al contempo romantica leggendo la tradizionale sceneggiata napoletana alla luce di Rainer Werner Fassbinder, che proprio in quel periodo “rifonda” il mélo tra lacrime amare e anni di tredici lune. Come ha spiegato lui stesso in un editoriale per Film Tv: “Se il cinema è imitazione della vita lo è nel doppio senso della parola: riprodurre con la maggiore approssimazione possibile, ma anche contraffare, simulare”.

Ida Di Benedettoe e Marcella Michelangeli in Immacolata e Concetta, l'altra gelosia
Ida Di Benedettoe e Marcella Michelangeli in Immacolata e Concetta, l'altra gelosia

 

Ida Di Benedettoe e Marcella Michelangeli in Immacolata e Concetta, l'altra gelosia

(Webphoto)

Immacolata e Concetta è un film essenziale, stilizzato, scarno, spigoloso, severo e allo stesso tempo lancinante e struggente, che mette al centro l’amore disperato e tragico tra due donne che si consuma in luoghi sudici e miserabili, evitando come principio di focalizzarsi sullo scandalo lesbico e concentrandosi piuttosto sulla gelosia, tra tammurriate scatenate e una carica erotica espressa attraverso ciò che non si vede. E Piscicelli trova le sue prime antieroine, un po’ madonne laiche e un po’ puttane sante: Ida Di Benedetto, reduce dall’esperienza con Werner Schroeter, regina del regno di Napoli che lo segue in molte avventure, e Marcella Michelangeli, icona maledetta del nostro cinema meno pop, qui fredda ed estrema.

A poco più di trent’anni, Piscicelli – che in tutto il suo percorso lavora con Carla Apuzzo, compagna di vita oltre che professionale – è nome di punta di un cinema giovane e ribelle, e con l’opera seconda viene invitato in Concorso nell’allora rinascente Mostra di Venezia firmata Carlo Lizzani: Le occasioni di Rosa (1981), autoprodotto e libero da ogni vincolo commerciale, è un altro memorabile ritratto fassbinderiano, un melodramma en plein air calato nella Napoli industriale che rivela la clamorosa Marina Suma, ragiona ancora una volta sui meccanismi della gelosia e del possesso, lavora sulle luci naturali per ricercare la purezza perduta. Se ne accorgono ai David di Donatello, che per l’unica volta in più di quarant’anni concedono a Piscicelli una candidatura come miglior regista.

Piscicelli piomba nel cinema italiano un minuto prima della new wave napoletana, in contemporanea con i primi album di Pino Daniele e i primi film di Massimo Troisi (Ricomincio da tre e Le occasioni Rosa sono davvero film paralleli), i vesuviani arrivati dopo di lui lo celebrano quale maestro, da Mario Martone a Pappi Corsicato fino a Paolo Sorrentino. Una stima dovuta al coraggio di questo regista che ha strappato la cartolina oleografica, preso di petto la retorica campanilistica, abbracciato il dissenso per leggere meglio l’anima e il paesaggio della città. E, forse, anche alla sfortuna commerciale e alla marginalità nell’industria: l’occasione di Blues metropolitano (1985), che racconta la Napoli centrale tra fermenti musicali e dipendenze dilaganti sulle note dei cantori dell’epoca (Pino Daniele, Tullio De Piscopo, Tony Esposito), non incontra il pubblico; Regina (1987) in gloria della presenza e del carisma della fedele Di Benedetto, è pura verifica incerta melodrammatica in un radicale bianco e nero; Baby Gang (1992) recupera la matrice neorealista con attori non professionisti e realismo sociale.

Luisa Ranieri in Vita segreta di Maria Capasso
Luisa Ranieri in Vita segreta di Maria Capasso

 

Luisa Ranieri in Vita segreta di Maria Capasso

(Vision Distribution)

Ed è avvilente che questa lateralità sia capitata a un autore capace di costruire un film come Il corpo dell’anima (1999), naturalmente indipendente e definito da Emil Cioran (“Ciò che non si può tradurre in termini di misticismo mai merita di essere vissuto”), storia erotica e spirituale tra uno sceneggiatore decaduto (Roberto Herlitzka) e una cameriera (Raffaella Ponzo) che esprime ancora una volta un’idea di cinema forte, senza compromessi, stilizzato e vivido. E capace di sperimentare le teorie del Dogma 95 con Quartetto (2001) e innestare interpreti pop in un certo modo di fare film con Alla fine della notte (2003).

Piscicelli ci lascia un ultimo film clamoroso, ancora incardinato su un singolare femminile incasellabile e periferico: la titolare (cioè una straordinaria Luisa Ranieri) del low budget Vita segreta di Maria Capasso (2019), ascesa criminale e avventura urbanistica dentro un mélo spudorato che è anche un noir luminoso e fa di tutto per non farsi piacere. Si dice spesso, di chi se ne va, che avrebbe meritato di più: nel caso di Piscicelli è vero.