Maggie Smith è l’unica attrice nella storia ad aver vinto un Oscar interpretando un’attrice che non riesce a vincere un Oscar. Il film si intitola California Suite, una delle tante e squisite commedie seventies firmate da Neil Simon, e per Maggie Smith fu doppietta: la prima statuetta l’aveva vinta un po’ a sorpresa nove anni prima, nel 1970, con La strana voglia di Jean. Che è dominato da un personaggio di quelli che fanno la gioia di un’attrice: un’insegnante anticonvenzionale, carismatica e non priva di contraddizioni, che s’impone in un collegio femminile nella Scozia degli anni Trenta.

L’Oscar, Maggie Smith, morta oggi a 89 anni, l’ha sfiorato altre quattro volte: una prima di Jean, come Ofelia in un Otello by Laurence Olivier; un’altra tra le due vittorie, nel 1973, per In viaggio con la zia, dov’è avventurosa e scatenata in uno dei suoi capolavori; e poi in due occasioni, già matura e celebrata, nel 1987 in Camera con vista e nel 2002 in Gosford Park. Eppure, come tutte le grandi dame della scena nate oltremanica – e dame di fatto, poiché nominate da sua maestà la Regina: recuperate il gustosissimo documentario Un tè con le regine in cui la vediamo insieme all’amica del cuore Judi Dench, Eileen Atkins e Joan Plowright – sembrava al di sopra di questi piccoli successi terreni.

È la scuola inglese della recitazione, il lavoro dell’andare in scena e cioè dello stare a mondo, che è disciplina (il teatro: il debutto nel 1952, l’addio nel 2019), mestiere (parliamo di persone che il palcoscenico l’hanno calcato quasi ogni giorno della vita), disincanto (bisogna pur pagare le bollette e quindi si accettano anche le cose più commerciali, tanto c'è sempre Shakespeare a elevarci lo spirito nel momento del bisogno).

Maggie Smith in Camera con vista
Maggie Smith in Camera con vista

Maggie Smith in Camera con vista

(Bim Distribuzione/Webphoto)

Nell’opera di Maggie Smith – semplicemente una delle più grandi attrici di tutti i tempi – non si sente mai il peso dell’artificio, l'accenno della fatica (dell’interprete e del pubblico, anzi), la freddezza di un’esecuzione fine a se stesso. C'erano piuttosto l’eleganza del gesto (anche ironica, da cui l’enorme capacità di abitare la commedia), il calore dell'impaccio (l’impercettibile tremolio del labbro, il rapido inarcamento del sopracciglio, il passo di chi non sa bene in che stanza alloggiare) e un attimo dopo, anzi insieme, l’autorevolezza morale, il cipiglio snob, la presenza scenica, l’implacabile sprezzatura il carisma naturale.

Perciò si credeva a lei qualunque cosa facesse o dicesse, in ogni epoca, che fosse tra gli expats della Firenze d’inizio Novecento (Camera con vista) o nell’Inghilterra affamata del dopoguerra (Pranzo reale), e in ogni genere, dalla revenge comedy d’alto bordo americana (la cofana e il rossetto della pluridivorziata del Club delle prime mogli) a quella dentro il convento (l’austera superiora di Sister Act), con il cappello da strega (la felina e potente Minerva McGranitt di Harry Potter che le ha assicurato l’amore delle nuove generazioni) e le rughe del make up (l’anziana Wendy di Hook).

Le si credeva sempre anche perché non si poteva fare altrimenti, come dimostra in quello che in fondo è, se non il suo testamento d’attrice, il lascito forse più forte: la Lady Violet della serie Downton Abbey che ha impersonato dal 2010 al 2015 e in due film nel 2019 e nel 2022, un concentrato di sommo orgoglio e sarcasmo spudorato nella consapevolezza del crepuscolo di un’epoca, capace di tenerezza impreviste tra faccette diventate meme e battute usate fuori dal contesto (e pensiamo anche al virale “kiss cam” con Leonardo DiCaprio). Ecco, la grandezza di Maggie Smith, attrice gigantesca senza discussioni, sta proprio qui: recitare è un mestiere che si fa per dare gioia al pubblico.